Nel doloroso Wunschloses Unglück, il libro che Peter Handke scrive nel 1972 per raccontare la storia di sua madre morta suicida, lo scrittore tedesco rileva quanto la scrittura non sia mai riuscita ad assolvere quella funzione conclusiva rispetto agli eventi del passato. Il ricordo viene sostituito quindi dalla “pretesa del ricordo” e dalla costruzione di una realtà che le affermazioni e la parola concorrono a sviluppare. Questo mondo fondamentalmente chiuso e che si presume di poter affrontare con distacco, riemerge minaccioso in forma diversa durante il sonno dello scrittore e quindi escluso dal quadro finzionale, come se una sollecitazione interna mai sopita lo lasciasse senza fiato e in preda al terrore, scompaginando tutti i livelli di realtà e rendendo quindi la scrittura azione impotente e inerte.
Lo scrittore interpretato da Jens Harzer nell’ultimo film di Wim Wenders, per quanto si tratti di una libera integrazione del regista tedesco e di un personaggio assente dalla piece Handkiana, occupa la stessa posizione interstiziale di cui parlavamo a proposito di Wunschloses Unglück, proprio per le sue qualità metadiscorsive.
La sua scrittura si affaccia dalla finestra aperta su un grande giardino per creare, tra ricordo e suggestione, il dialogo tra due personaggi, ma è solo una delle finestre aperte nel nuovo bellissimo film di Wim Wenders.
Questa visione frontale consente al regista tedesco di affrontare per la quarta volta il 3D, subito dopo il bellissimo Everything Will Be Fine, secondo i principi della fotografia stereoscopica di Alain Derobe, mantenendo quindi un rapporto di profondità naturale con l’immagine.
Rispetto al film precedente, dove la trasparenza del set creava una relazione complessa tra personaggi e piani della visione, in Les beaux jours d’Aranjuez tutto sembra ridotto all’essenziale e ai principi scopici che animano la pittura di Paul Cezanne, un riferimento costante nel cinema di Wenders reso esplicito in quest’ultimo lavoro con il tentativo di lavorare con-tro la parola.
Il tentativo di definire e afferrare una sensazione collide con la presenza indifferente della cornice naturale e mentre il dialogo tra i due personaggi “scritti” si muove tra maschile e femminile con un progressivo movimento di erosione delle dinamiche legate al possesso, lo scrittore immaginato svanisce inghiottito da un vecchio Wurlitzer che attraversa una storia personalissima e intima del rock, fino all’apparizione di Nick Cave seduto al pianoforte, spettatore unificante e attivo di quello stesso spossessamento con la sua “Into my arms”, apertura improvvisa verso la grazia e l’amore: “But I believe in love | And I know that you do too | And I believe in some kind of path | That we can walk down, me and you“.
La scomposizione Handkiana e Wendersiana del quotidiano è allora vicina alla prospettiva multipla di Cezanne, un vero e proprio studio sulle apparenze, oltre il fenomeno. Non solo l’espressione di un’idea, ma il tentativo di ricreare l’esperienza come un ponte verso l’essere.
Il 3D e la pixelizzazione di un quadro dello stesso Cezanne sono quindi un viaggio fino all’inizio dell’immagine, che coincide con la sua fine, la soglia oltre la quale…