Nel suo nuovo film, Masashi Yamamoto ci racconta la storia di un percorso di crescita spirituale contestualizzato in una più ampia riflessione sulle nuove forme di religiosità che emergono nel Giappone contemporaneo.
Minjon è una giovane giapponese di origini coreane, orfana di madre e cresciuta senza il padre andatosene via quando lei era ancora piccola. Nipote di una sciamana coreana e dotata di un particolare carisma, Minjon è divenuta in breve tempo il guru spirituale di “God’s Water”, setta operante a Okubo, un ghetto coreano nel quartiere speciale di Shinjuku, a Tokjo. È nella sede/santuario della “God’s Water” che Minjon accoglie in udienza emarginati della società di ogni sorta, di cui ascolta i dolori e le frustrazioni e che mette in comunicazione con l’oracolo, dell’acqua contenuta in un acquario circondato da piante per appartamento. I messaggi all’acqua di rose (è proprio il caso di dirlo) con cui l’oracolo risponde tramite la giovane sono perlopiù frasi in coreano messe insieme da un vero e proprio copywriter, all’insaputa dei credenti.
Di per sé, la cosa non stupisce certo: “God’s Water” è un’organizzazione al suo interno ben strutturata, con tanto di manager e impiegati full time, finalizzata al profitto e con l’obiettivo immediato di allargare il più possibile il numero di adepti, così da avviare a breve la pratica per il suo riconoscimento ufficiale come religione. I suoi strumenti di comunicazione e fidelizzazione vanno dal passaparola al volantinaggio per palazzi fino a includere l’utilizzo dei social media.
Tutto sembra andare per il meglio fin quando non irrompe nella vita di Minjon il padre, perseguitato da brutali strozzini dell Yakuza, con i quali l’uomo ha contratto dei debiti per lui insaldabili. L’uomo si nasconde e vive nella sede di “God’s Water”, dove nessuno sa che è lui il padre di Minjon, ma quanto a lungo questo resterà un segreto? E cosa succederà alla giovane quando la Yakuza verrà a scoprirlo?
Su un piano formale, il film si presenta come un corpus coeso, privo di quasivoglia smagliatura o elemento fuori dalle righe. Inquadrature fisse si alternano all’uso della camera a spalla, il montaggio segue le regole del decoupage classico, il suono e la fotografia assolvono a una funzione patica, subordinate alla narrazione di cui evidenziano e colorano ‘emotivamente’ i punti chiave.
L’intreccio è mostrato rispettando logica e cronologia dei fatti; sono presenti inoltre alcune ellissi e pause narrative finalizzate a figurativizzare la spazialità dell’acqua nella sua sacralità. Le funzioni narrative sono in numero di gran lunga maggiore rispetto a quello delle parti descrittive. Elementi informanti vengono ben centellinati in modo da ingenerare nello spettatore aspettative, premonizioni e un ben dosato effetto di suspense.
Tra i tanti aspetti presenti (ad esempio, quello del percorso spirituale inteso come affermazione assoluta dell’io sull’ego, o anche quello della matrilinearità della trasmissione dei valori portanti della società) ciò che più di impone è la declinazione dell’idea di sacro tramite l’elemento naturale dell’acqua. Questa fonte di vita e di morte prende le più diverse colorazioni e forme e si esprime cineticamente secondo le più svariate dinamiche. Ciononostante non cessa di essere definibile come acqua.
Col suo nuovo lavoro, Masashi Yamamoto (tra gli altri suoi film ricordiamo: Carnival in the Night, 1983; Robinson’s Garden, 1987; Three Points, 2011) non soltanto coniuga con maestria satira, Yakuza-trash e un partecipe ritratto del mondo degli emarginati della società giapponese. Con questo film egli pone anche una profonda riflessione sul sacro, inteso come purezza che si raggiunge unicamente passando per le vie della contaminazione e del pericolo, del rischio assolutamente irrazionale legato al sacrificio fisico e psicologico. Ad li là di ogni compromesso, senza nessuna sicurezza.