Non è la prima volta che Macoto Tezka affronta l’opera del padre. Attivo sin dai primi anni ottanta, realizza il suo primo lungometraggio, “Ghost Hero“, nel 1990 e adatta per la televisione la miniserie anime dedicata a “Black Jack” tra la prima e la seconda metà del nuovo secolo. Barbara è un progetto a cui Tezka tiene molto, perché capace, secondo le sue intenzioni, di avvicinarsi maggiormente allo spirito del suo stesso cinema. L’Osamu Tezuka dei gekiga e del periodo più estremo che occupa tutti gli anni settanta, ha certamente qualcosa in comune con opere come “Hakuchi” e “Shinkuronishiti“, conosciute in occidente rispettivamente con i titoli di “The Innocent” e “Black Kiss“.
[ Barbara, il manga di Osamu Tezuka. Leggi l’approfondimento da questa parte su indie-eye cinema ]
La città, che rimane al centro del segmento realizzato per il più recente “Tokyo Shutter Girl“, è un organismo complesso e divisivo, osservato a partire dai margini. La prospettiva gore di “Black Kiss” e quella fantascientifico apocalittica di “The Innocent“, sono cornici narrative che servono a sviluppare una riflessione palindroma sulla molteplicità del reale. Che si tratti del doppio rovesciato e connesso tra arte e omicidio, capace di rivelare il volto mostruoso di una Tokyo nascosta, oppure lo stato sonnambolico di una città sospesa entro le regole di una guerra infinita, riflessione complessa sullo stato di “pace perenne” del Giappone, la traiettoria urbana è una linea che separa e unisce l’imperscrutabile percorso del desiderio. “Barbara“, l’opera di Osamu Tezuka, oltre ad un’analisi stratificata sullo statuto dell’arte legata in parte al periodo in cui il grande mangaka l’ha concepita è anche uno straordinario sabotaggio della percezione maschile desiderante.
Il contesto urbano, presente nell’opera di Tezuka padre come organismo anche viscerale che può condurre dentro il cuore più nero dell’esistenza, è agglomerato affascinante, geometrico, tagliente, minacciato da forze che possono metterne in discussione l’assetto sociale e politico.
In Barbara, uno degli elementi disgreganti è rappresentato dalla negromanzia e da tutte le derive irrazionali che conducono lo scrittore Yousuke Mikura sull’orlo della follia.
Più della relazione tra questi elementi e i processi creativi dell’opera d’arte, a Macoto Tezka interessa lo scambio percettivo tra soggetto e oggetto del desiderio.
Il suo “Barbara“, presentato in anteprima al Festival di Tokyo alla fine dell’anno scorso e recentemente incluso nel palinsesto del Göteborg Film Festival, sembra aderire in modo molto preciso ai contenuti del manga originale, ma in realtà compie un lavoro di sintesi per privilegiarne tutti gli aspetti che si legano all’innesco e al disinnesco di un’ossessione erotica.
Fedele nella successione degli eventi, lavora in modo sottile sull’ambientazione e sui corpi, grazie alla fotografia di Christopher Doyle e alla colonna sonora tra Jazz e derive urban composta da Ichiko Hashimoto. Entrambi gli elementi estetici favoriscono una geometrizzazione dello spazio visivo e aurale, quasi per creare una sintesi chiusa, intima, ma allo stesso tempo claustrofobica, dell’idea di città.
L’isolamento creativo del personaggio interpretato da Goro Inagaki viene accentuato da un lavoro sul digitale che aumenta la distanza dello sguardo, annientando qualsiasi possibilità aptica. Il metodo è quello sperimentato molte volte da Doyle nella descrizione cromatica della città, con una contrapposizione che qui diventa più forte per il contrasto che si crea tra il movimento interno allo spazio, creato dalla ricca varietà colorimetrica e la staticità dell’immagine perseguita da Macoto Tezka, per niente attratto dall’ipertrofia cinetica di alcuni autori asiatici con cui Doyle ha collaborato in passato.
Se il film corre il rischio di rendere statico e quindi paradossalmente grafico lo scambio erotico tra Barbara e lo scrittore, soprattutto nella scena dell’amplesso che si avvicina pericolosamente ai pruriti di un pink eiga di trent’anni fa, c’è un affascinante e per certi versi pudico gusto rétro, la cui forza risiede nell’intenzionalità di un racconto scopico legato ad un’alterazione percettiva.
Non è un caso che dal manga di Tezuka vengano scelti gli episodi erotici maggiormente legati al brutale disvelamento delle illusioni, quella dove Yousuke Mikura si accorge di scopare un manichino e il momento in cui Barbara uccide un cane, perverso oggetto del desiderio per la coscienza alterata dello scrittore. In entrambi i casi Tezka accentua le dinamiche ottiche del cinema surrealista, dove animato e inanimato, animale e umano, si scambiano posizione e valenza segnica grazie alla trasmutazione di una forma in un’altra.
In questa scelta selettiva che privilegia le parafilie di Mikura si concentra l’interesse di Tezka per la mimetizzazione della forma, come costante stato di passaggio tra organico e inorganico, reale e virtuale.
Si potrebbe obiettare che in questa fantasia di luci e colori, dove i corpi diventano parte di una complessiva alterazione ottica, manchi il riferimento ad un contemporaneo esplicito, alla Tokyo odierna e al suo progressivo sprofondare nella virtualità della tecnocrazia.
Tezka non sceglie certamente questa via, ma in modo sottile ci conduce all’isolamento ossessivo di un’idea di desiderio inscalfibile, sfortunatamente, da decenni di Women’s studies.
La parte conclusiva del film, rielabora con minore adesione alla cronologia fattuale del manga, l’isolamento nel cottage e la soppressione fisica di Barbara per mano di Mikura.
Più estremo e vicino all’indicibilità dei corpi il regista giapponese conduce il corpo di Fumi Nikaido in questo spazio angusto, trasformandola in una bambola di carne separata anche dal calvario della sofferenza. Corpo da imprigionare, ridurre, stuprare, si oppone alla distruttività negativa dei principi di identità con uno sguardo che Mikura non può sostenere, perché nella sua estrema valenza polisemica, nega lo scambio semiotico inteso come qualcosa di astratto, disincarnato.
Proprio qui Tezka compie alcune sostituzioni e rovesciamenti, tra cui la sequenza dello strangolamento dove Barbara diventa vittima nell’illusione di Mikura, ma improvvisamente carnefice dall’altra parte di quella stessa illusione, ovvero nel rimettere in gioco la forza psichica di questa figura nomade a partire dalla sua realtà extrasemiotica, eccedente rispetto alle intenzioni stesse dell’autore.
Forza creativa e distruttiva, Barbara, come dicevamo altrove, è anima randagia e non si afferra.