Nel lotto descritto da Lily Ana Amirpour c’è ben altro di difettoso rispetto ai “reietti della società” e agli emarginati.
Primo fra tutti il femminismo a cui vorrebbe far riferimento che è molto basico, si riferisce cioè a una tipologia di pensiero che si immagina la donna con il fucile in mano, in cerca di vendetta nei confronti di una società dominata dagli uomini.
Una distopia molto semplificata se si pensa a quell’anti-mitologia descritta da Angela Carter (per l’autrice il mito non è veicolo di verità) nel suo romanzo datato 1977, “La Passione della Nuova Eva”, un viaggio alla riscoperta della propria identità sessuale e della sua affermazione all’interno della società.
Citiamo non a caso il romanzo della Carter, perché ci sembra che la Amirpour ne abbia saccheggiato alcuni elementi narrativi, oltre all’ambientazione post-apocalittica.
In qualche modo, quindi, sembra che abbia tentato la strada, fin troppo battuta e troppo spesso travisata, di un femminismo “militare” più che militante, in cui le regole del gioco sono esattamente le stesse della società a cui ci si riferisce criticamente, ma rovesciate; strascichi di una società, che vedono le donne ancora racchiuse in un guscio di protezione (spesso maschile), sebbene abbiano ottenuto una certa libertà di espressione.
Per questo non convince l’epilogo che vede Arlen (Suki Waterhouse) intrecciare una non troppo tacita relazione con Miami Man, maschio di tipo alfa che tenta di sopravvivere nel deserto texano e di far sopravvivere la propria famiglia, moglie e figlia, macellando carne umana, unica fonte di nutrimento.
Non ci basta perciò come giustificazione quella della “lotta alla sopravvivenza” per comprendere le ragioni di questa deriva che ha più della pop culture rispetto ai rimandi letterari o cinematografici: sarebbe fin troppo semplice pensare al cinema di Rodriguez o a certo cinema americano contemporaneo che “rimane nel limbo dell’intraducibile, imprigionato entro i propri confini, entro i limiti del mezzo tradotto, nonostante gli sforzi sperimentativi, intersemiotici”
Un altro ostacolo che impedisce a “The Bad Batch” di esplodere in un revenge movie dai toni splatter senza remore, è quella patina e quell’estetica che fa il verso agli anni ‘80/’90, decadi qui rispolverate di tutto punto di cui fanno parte certe tendenze modaiole proposte a giovani teenager di oggi che di certo non hanno vissuto quegli anni.
Ci fa pensare a questo il dress code e l’aspetto estetico della “cazzuta” Arlen (nel vero senso della parola: la pistola che porta nei pantaloni come a prendere il posto di un fallo, immaginario femminista assai becero), rimarcato nell’abbinamento sempre molto studiato e poco lasciato al caso e troppo legato a una certa estetica femminile, quella di una donna che non perde mai il fascino a dispetto delle amputazioni alla gamba e al braccio inflitte da un gruppo di individui che vivono nel deserto al di fuori della “Comfort Zone”.
Questa città-miraggio vorrebbe apparire come la Beulah in cui si imbatte Evelyn/Eva ne “La Passione della Nuova Eva”, luogo di trasformazione e di fecondazione presieduta da una gigantessa dai seni enormi che si fa chiamare “Mother”, figura dai connotati maschili che progetta la trasformazione del sesso di Evelyn in Eva e la fecondazione con il suo stesso seme e da cui Evelyn fugge perdendosi nell’infecondità del deserto (per ricordare lo scenario parlante del deserto descritto in “The Waste Land” di Eliot).
Riferimenti questi, che con molta probabilità hanno stuzzicato l’immaginazione di Lily Ana Amirpour ma che sono rimasti una lontana eco, sovrastata dai rumori assordanti di certe canzonette pop inserite per contrasto nelle scene dalla crudezza gratuita. Come se producessero l’effetto shock di certe intuizioni tarantiniane di più di vent’anni fa. Un cinema nato già con le rughe.