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The Mountain di Rick Alverson – #Venezia75 – Concorso: La recensione

La recensione del film di Rick Alverson in concorso a #venezia75

Una sorta di atmosfera assurda da incubo pervade l’ultimo film di Rick Alverson, intitolato semplicemente The Mountain. Una eccellente cinematografia di stampo fotografico dona ad ogni elemento dell’inquadratura una plasticità e una saturazione apparentemente non naturale, che immerge lo spettatore in un clima non del tutto definibile e alienante, complice anche la scarsità di dialoghi nelle sequenze introduttive.

Quindi, dopo vari minuti di lecito smarrimento, inizia a prendere forma una location, una sorta di Twin Peaks vista attraverso la lente di una Polaroid, mentre ai personaggi viene negata una chiara introduzione. L’immagine, così come la trama, resta avvolta da un alone di mistero. Il plot di The Mountain inizia a strutturarsi appena viene introdotto il personaggio interpretato da Jeff Goldblum, l’eccentrico dottor Wallace Fiennes. La specialità di Fiennes non è tra le più diffuse nell’ambito sanitario, essendo il medico un esperto di lobotomie. Probabile figura ispiratrice di questo personaggio, come suggerito dallo stesso Goldblum, è Walter Freeman, medico diventato celebre per aver perfezionato questa pratica, notoriamente tra le più brutali e invalidanti operazioni che un uomo possa subire.

La lobotomia diventa presto il centro di una narrazione che prende piede con lentezza, mostrando innanzitutto la terribile procedura applicata a pazienti che, per la postura e il comportamento passivo, ricordano molto più dei manichini che non degli esseri umani. L’interazione di Fiennes con queste figure catatoniche (in questo stato già prima dell’operazione in realtà) fa risaltare la sua personalità eccentrica, contrapposta alla calma espressione del suo aiutante fotografo (un introverso e a tratti inquietante Tye Sheridan), il ragazzo con la madre malata e rimasto senza padre che funge da protagonista della vicenda. A questa già sufficientemente curiosa fauna umana dell’assurdo si aggiunge il personaggio interpretato da Denis Lavant (l’attore feticcio di Leos Carax), una sorta di maschera teatrale che, vaneggiando parole di saggezza sul senso dell’espressione artistica mescolate a vaghe considerazioni platoniche sull’ermafroditismo, dà il colpo di grazia ad un film già criptico e composto da sequenze montate nel caos. C’è chi vi trova una sottintesa chiave simbolica, magari cedendo alla tentazione di allargare alla figura del lobotomizzato gli attributi assunti dallo zombie nel cinema contemporaneo: una chiave di lettura sociale, facile via d’uscita se si considerano gli spunti e gli elementi che la sceneggiatura del film chiama in causa. Ma il messaggio appare come tutt’altro che immediato e il film non riesce a scrollarsi di dosso il velo di oscurità che impedisce allo spettatore di cogliere a fondo il mistero ultimo della storia.

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