The Vojage of time attiva una funzione duplice tra corpo e occhio. Si tratta di una dimensione chiasmatica che ci interroga costantemente sulla definizione di esperienza cinematografica. Quello di Malick è un viaggio che appartiene all’occhio oppure al corpo? Sollecita una dimensione senziente oppure sensibile? Osserviamo oppure tocchiamo?
Dall’infinito piano sequenza di Tree of life all’irriducibilità dell’istante in To the Wonder, fino a quella relazione tra corpo e paesaggio, interno ed esterno sperimentata in Knight of cups, Malick sceglie la forma del viaggio per mostrarci un territorio viscerale che dialoga con una percezione del tempo cosmica e allo stesso tempo intimamente personale, dove qualsiasi concetto generativo viene costantemente messo in circolo con quello di riassorbimento e distruzione, tanto da non scegliere una narrazione evolutiva, ma fatta di salti, improvvise espansioni e contrazioni, non solo tra scienza e arte, ma anche attraverso la storia industriale del cinema.
Charles Urban, Melies, Rene Clair, il documentario scientifico, la fantascienza e anche Disney, come già accadeva in Tree of Life.
Viene allora attivato un processo che ha certamente a che fare con la memoria, ma che trasforma la visione in tatto e viceversa secondo un principio di reciprocità sensoriale che era già alla base del cinema “originario” di Malick, in quel viaggio verso le nuvole alla fine di Badlands.
La materia in gioco è davvero magmatica, perché confonde organico e digitale, luce naturale e renderizzata, found footage e riprese in location, prossimità fisica e distanza virtuale in un corpo filmico continuamente sottoposto a metamorfosi, quasi fosse l’atto stesso del vedere e del toccarsi per vedere oltre, durante l’esperienza stessa.
La stessa dimensione creaturale del film, tra animali preistorici ricreati e tracce degli stessi nei cefalopodi scovati tra gli abissi, partecipa di questa dualità scopica e tattile, invertendone spesso l’origine e la direzione.
Ciò che sopravvive della parola, nell’anti-narrazione di Cate Blanchett riduce la stessa a fonemi polverizzati e trasfigurati, vere e proprie onde emotive che spostano continuamente l’orizzonte tra descrizione e immagine, senso e significato.
Se sopravvive l’elegia, questa si manifesta attraverso un processo ormai totalmente combinatorio nel nuovo cinema di Malick, dove il linguaggio poetico può emergere da quello scientifico e quello scientifico dalla dimensione spirituale, idioma complesso verso l’au(ro)ra del cinema.
Voyage of Time: Life’s Journey di Terrence Malick – Venezia 73 – Concorso: la recensione
Voyage of Time: Life’s Journey di Terrence Malick in concorso a Venezia 73, la recensione