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When the Trees Fall (Koly padayut dereva) di Marysia Nikitiuk – Berlinale 68, Panorama: la recensione

Viscerale debutto per la regista ucraina Marysia Nikitiuk. Fuga dal sistema patriarcale

L’esordio nel lungometraggio di Marysia Nikitiuk è uno dei segnali più evidenti della rinascita del cinema Ucraino. In termini semplicemente quantitativi, la regione ha prodotto una quarantina di film durante l’anno appena passato, il numero probabilmente più alto dal 1991, anno in cui ci si era espressi a favore dell’indipendenza. La 68/ma edizione della Berlinale ha sottolineato questa ritrovata fecondità, accogliendo sei opere da altrettanti autori locali, una di queste è proprio “When the Trees Fall” (Koly padayut dereva)  in concorso nella sezione Panorama del Festival.
Dopo aver esordito come sceneggiatrice per i corti di alcune colleghe come Yulia Gontaruk e Masha Kondakova, la Nikitiuk  dirige il suo primo cortometraggio nel 2014 a cui ne seguiranno altri due. Mentre “When the trees fall” debutta alla Berlinale, Seraphyma, secondo lungometraggio della regista tratto dal romanzo di Olesya Ulyanenko, è già in produzione con un’uscita prevista per il 2019.
“When the trees fall” è una co-produzione tra Ucraina, Polonia e Macedonia, configurazione necessaria per qualsiasi film locale, come ha avuto modo di dichiarare la stessa Nikitiuk, perché se l’organismo cinematografico statale fornisce usualmente il cinquanta per cento del finanziamento necessario, risulta quasi impossibile trovare i restanti fondi all’interno della regione, costringendo gli autori e le produzioni a rivolgersi all’esterno.

Proprio dal cinema polacco il film della Nikitiuk imbarca una veterana del montaggio come Milenia Fiedler, attiva dagli anni novanta e recentemente collaboratrice di autori come Andrzej Wajda (ha montato Katyn, Tatarak, Walesa. Czlowiek z nadziei) Krzysztof Zanussi (ha montato il discusso e discutibile Obce cialo) Jerzy Stuhr (ha montato Obywatel) e Urszula Antoniak (ha montato Nude Area e Beyond Words). La fotografia è affidata al visionario Michał Englert, lo stesso che ha diretto luci e immagini per tutto il cinema di Malgorzata Szumowska, incluso l’ultimo Twarz.

Scritto dalla stessa Nikitiuk, il film ci immerge sin da subito in un rituale erotico silvestre, alternato allo sguardo infantile di Vitka (Sofia Halaimova). Mentre i corpi nudi di alcuni adolescenti raggiungono l’orgasmo e si montano con furia tra il fango, la selva e i corsi d’acqua, la piccola di cinque anni sembra proteggere il confine tra la foresta e il villaggio con una testimonianza più psichica che reale. In questo accordo con la natura, comprensibile negli aspetti più ferini solamente attraverso le capacità dello stupore infantile, la Nikitiuk salta brutalmente dallo spazio folklorico delle storie a veglia, alla presenza minacciosa dei complessi urbani di Lozova, senza risolvere a vantaggio del realismo magico o di quello sociale, ma evidenziando nel contrasto il transito difficile di una generazione da uno stato all’altro. 

Mentre Vitka vive l’anarchia della sua età rispetto al tempo tradizionale del villaggio, tra natura e imposizioni famigliari, l’adolescente Larysa (Anastasia Pustovit) non scorge niente di buono nell’eredità culturale di un sistema patriarcale, da cui cerca di fuggire con tutte le sue forze. Vitka evade dalla logica per lei incomprensibile del dovere e ascolta il richiamo della natura accordandolo al linguaggio delle fiabe, Larysa cerca nel sesso con l’amato Scar (Maksym Samchyk) lo stesso tipo di abbandono.

In questo senso il film della Nikitiuk si inserisce perfettamente nel solco di quelle opere dell’Europa dell’est che secondo Aga Skrodzka, rimangono sospese nello spazio immaginario tra suggestioni locali e sollecitazioni globali. Se l’incorporazione del “magico” viene rivelata da alcune strategie naturalistiche, attraverso la manifestazione del dettaglio, come era nel cinema fatto di luce riflessa di Kira Muratova, la giovane regista ucraina sottrae lo sguardo cambiando registro ed evidenziando la dinamica del cambiamento,  proprio quando queste rifrazioni sembrano sfiorare l’elemento soprannaturale.

Tutto sembra contribuire all’esplosione di una religiosità pagana, grazie anche alle musiche di Mikita Moiseev in bilico tra drone music e coralità popolare, ma è solo un’illusione o la definizione di un ambiente immaginario fortemente ricercato, perché in quella sovrapposizione incongrua dello spazio sperimentata da Larysa, a Marysia Nikitiuk interessano soprattutto i meccanismi della trasformazione, dove passato e futuro collidono. 

Si tratta di una dinamica che influenza la struttura dello stesso film, impostato sul cambio repentino di registro. Tutta la parte centrale è occupata dalla discesa urbana di Scar e dei suoi compagni dove Larysa diventa testimone di una violenza maschile che contamina tutto e che si riverbera persino nelle modalità con cui la madre comunica con lei. Un mondo dominato dagli uomini che sembra influenzare la stessa qualità morfologica dei luoghi. Perché non c’è salvezza tra i blocchi dell’architettura funzionale sovietica dove è murata la madre di Larysa, né all’interno del nucleo rurale dove la giovane donna vivrà la sua imminente prigione, questo a dispetto di alcune scelte estetiche che cambiano radicalmente possibilità percettive e qualità del racconto. 

Da una parte il rischio di un tour de force estetizzanze potrebbe essere dietro la porta, ma a salvare la purezza degli sguardi nel film della Nikitiuk è il contrasto tra la percezione femminile e la violenza che attraversa tutte le immagini del film, non importa se questa promana da un rituale apotropaico o dal degrado delle configurazioni urbane, perché a disinnescare qualsiasi interpretazione utopica si manifesta la verità del dolore negli occhi di Vitka e nel deambulare a vuoto di Larysa. 
Un film di fughe continue “When the trees fall”, diseguale per scelta e anche per la furibonda necessità di metter tutto dentro che caratterizza le opere prime. 
In quella sconcertante e definitiva corsa a cavallo di Vitka verso il sogno e oltre il limite del cielo i più distratti avranno forse intravisto gli eccessi di quel cinema che a partire dalle tradizioni popolari si prende qualsiasi licenza, a noi è sembrata una lettura commuovente di uno dei più intensi Ex libris disegnati da Bruno Schulz, artista di confine.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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