White Flowers non permette momenti di distrazione, ogni parola, il colore occupato da ogni spazio, gli abiti, ogni dettaglio diventa il tassello necessario a ricostruire la storia. Il film di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani è una decostruzione attenta e spietata di ogni genere che conosciamo e con cui affrontiamo il nostro modo di guardare il cinema.
White Flowers non è un thriller ma il ritmo incalzante, la suspense e l’eccitazione nel ricavare indizi che sembrano promettenti per poi rivelarsi falsi ce lo fanno pensare. Marcello si sveglia e sotto al suo cuscino c’è una pistola, è un uomo scosso alla ricerca dell’identità perduta.
Seguire i suoi passi è come stare davanti a Bobby Fischer mentre giochiamo a scacchi, l’avversario è avanti con diverse mosse in anticipo. Non è una storia d’amore ma Marcello è innamorato di Eri, gli istanti fuggevoli che vivono insieme sono un incantesimo dolce e malinconico che rimane interrotto e sospeso nel tempo dei loro ricordi. Non è un gangster movie anche se Eri è la giovane moglie di un boss giapponese, un uomo freddo e meticoloso che chiuso nella sua serra sa essere sprezzante di fronte al dolore che vede negli occhi della sua sposa. Non è un racconto di formazione ma la giovane Yuki è arrivata in Italia con la speranza che la sua ispirazione si accenda, è una mangaka, vuole raccontare un’altra storia e allora per i vicoli di Genova incontra un misterioso ragazzo, Damiel, che come Virgilio con Dante sa prenderla per mano e condurla dove possa trovare i personaggi in cerca d’autore.
Non è un road movie ma Yuki finisce in una coupé rossa fiammeggiante, accanto a Marcello, alla ricerca di una vecchia casa, ritratta in una fotografia, unico appiglio dell’uomo per ritrovare se stesso. Mentre Yuki si prepara al viaggio, Marcello sa di essere arrivato al termine del suo, come due flâneur osservano, raccolgono con vividezza ogni sensazione, il passato diventa qualcosa che possono vedere ma non toccare.
Un pezzo da camera cupo, una deliziosa agonia in cui il tempo avanza in modo strano, in cui il rosso, l’oro, il verde come fosse delicata giada e il grigio fanno da fondali screziati ai quattro personaggi in questa esperienza effimera che svanisce sullo sfondo di una nuova brutale realtà.
Il formato ristretto dell’immagine ci lascia guardare il mondo in modo contratto, quasi addensato, come se i registi volessero limitare le vie di fuga ma anche sfruttare la possibilità di porre la loro cinepresa su i volti dei personaggi, in primo piano, rendendoli il vero centro permanente della nostra visione.
Se questo è lo scopo del Quattro Terzi quando il film si espande in 16:9 sembra indicare un espediente narratologico che potremmo definire usando la formula di André Gide, una mise en abyme, cioè la storia nella storia, condensando in sé il significato ultimo della vicenda.
Questo film con il suo stile inebriante che va al di là delle convenzioni acquisite nello storytelling tradizionale potrebbe essere paragonato solo ai riff improvvisati di un artista jazz con le sue ripetizioni e le sue impressioni vertiginose.