sabato, Novembre 23, 2024
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Beatrice Antolini – Iperborea: recensione

Il conoscitore di segreti, chiunque sia, impegna la parte più importante della propria ricerca verso il superamento del dualismo che ha caratterizzato la cultura occidentale. La comprensione della realtà allora può espandersi e non opporre più alcun filtro a quella relazione quotidiana che si instaura tra epifenomeno ed esperienza extrasensibile. Per i Buddhisti Tibetani è una prassi specifica di svuotamento, necessaria per raggiungere quella che potremmo chiamare, attraverso numerose tradizioni, mente naturale.
Contro quelle categorie censorie che hanno spezzato la comunicazione tra terra e cosmo e che dialogavano solo nell’intensità dell’infanzia, per rubare una splendida espressione di Rilke, c’è una fitta rete di rivelazioni che attraversano la storia della filosofia, della mistica e dell’ingegno creativo.
Una dimensione non sempre facile da definire attraverso gli strumenti della critica materialista, ovunque dominanti e spesso applicati con incoscienza mimetica.
Iperborea, primo album di Beatrice Antolini cantato in lingua italiana, si incunea in modo assolutamente personale in questo percorso, tanto da porsi di fronte ad alcuni interrogativi emersi nuovamente durante l’esperienza globale di isolamento, con grande chiarezza e allo stesso tempo, con quella capacità combinatoria che stratifica il senso senza barare con il segno.

Già dai due singoli, “Il timore” e “L’idea del tutto“, si evidenzia la coesistenza di azione e contemplazione come necessario antidoto alle fratture della realtà percepita. Due movimenti apparentemente agli antipodi e che invece trovano la necessaria complicità per superare le insidie del condizionamento.

Beatrice si serve di potenti forme figurali dove qualsiasi espressione della coscienza viene messa di fronte ad una possibilità che ne rilanci il significato, dalle relazioni affettive all’ipnosi collettiva che nella realtà aumentata nutre le illusioni dell’io, moltiplicandone le maschere.
L’arte dell’abbandono” è in questo senso specifica. Al valore nominale di cose e ruoli, materializzati da intenzionalità collettive, si oppone la capacità di lasciare tutto, conservando il poco che consentiva ai Padri del deserto l’ingresso nell’interiore.

Svuotamento, abbandono, perdita, parole che assumono allora altre valenze.

La fusione tra spinta contemplativa e azione diventa il propellente creativo di tutto l’album, nelle continue contaminazioni, anche interne ad un singolo brano, tra oriente ed occidente, città e annullamento dell’orizzonte urbano.

Eppure in quella prospettiva l’album è straordinariamente immerso, come ci mostra il bel video de “L’idea del tutto”, diretto da Michele Piazza su concept della stessa Antolini.
Ne rileva quindi le contraddizioni, le spaccature entro cui individuare un’altra realtà. E lo fa con un lessico multiculturale, che dalla forma sinfonica legata anche alla tensione drammatica e circolare della musica per il Cinema, passa con estrema libertà alle sonorità della strada, vicinissime al cuore etnografico e molto lontane da quei cliché diffusi nel pop italiano.

Proprio la title track raccoglie tutti questi stimoli come fossero innesti su una trama mutante, dove lo stesso cantato di Beatrice segue altre poliritmie.

L’india di “Pensiero Laterale” all’interno di un corpo sonoro noise-industrial, oppure certi suoni che emergono ne “L’arte dell’abbandono“, timbricamente e nell’essenza vicini alla ricerca apolide di Jon Hassell, proprio per la difficile collocazione, tra la musica tradizionale giapponese, quella del Tibet o l’eco della cultura aborigena australiana.

Viene in mente, ascoltando la coda strumentale di “Restare” quel sistema di risonanze che nella musica di Artem’ev per Stalker, il film diretto da Tarkovskij, riusciva a modificare una tradizione dentro l’altra, rendendo così indistinguibili provenienze e latitudini culturali distanti eppure vicinissime.

Si verifica allora anche sul piano sonoro una vera e propria dispersione dell’io verso una dimensione cosmica, che nel lavoro di Beatrice Antolini vive ancora della ricchezza di una componente attiva.
L’azione non è oppositiva alla ricerca interiore, sembra suggerirci Iperborea, ma il fuoco che rende possibile il dinamismo dell’identità nella molteplicità.

Beatrice Antolini su Instagram

Beatrice Antolini – L’idea del tutto, il videoclip

Terry Blue – Fragile Friend: il videoclip in anteprima

Terry Blue è il progetto in duo di Leo Pusterla, compositore e paroliere che con il più recente “Chronicles of a Decline“, album pubblicato nel 2023 per Another Music Records, aveva lambito territori acustici vicini al pop-folk di Bon Iver. Per quella occasione indie-eye aveva proposto in anteprima il videoclip di Lullaby, 2050.

“Fragile Friend”, il nuovo singolo di Terry Blue anticipa l’album “Lakewoods”

Torniamo ad occuparci della sua musica presentando sempre in anteprima il videoclip di “Fragile Friend“, singolo che ha già visto la luce nelle esecuzioni dal vivo, durante il tour europeo che ha condotto il duo attraverso l’Inghilterra e l’Europa e lungo un periodo di ben due anni.
Il singolo anticipa un nuovo full lenght previsto per aprile e intitolato Lakewoods.
Insieme a Leo c’è anche Eleonora Gioveni, l’altra metà del duo che contribuisce a definire il progetto anche dal vivo, al di là della forma collettiva che in questi anni ha assunto.

Fragile Friend in termini sonori è un vero e proprio cambio di rotta. Registrato negli studi Safe Port Production, integra momenti elettroacustici che superano i confini del pop-folk.
La dimensione confidenziale rimane al centro, ma si aggiunge un’attitudine pop più stratificata e legata alle suggestioni elettroniche del songwriting nordeuropeo di altissima qualità.
Gli arrangiamenti, curati da Eleonora Gioveni trasformano e “corrompono” l’apparente serenità del brano con glitch, interferenze, cambi di prospettiva che alludono al lato più dolente dell’esistenza, legato alla percezione del tempo e alle difficoltà quotidiane.

Una fragilità che è anche elegia della perdita nel passaggio all’età adulta.

Terry Blue su Instagram

Terry Blue – Fragile Friend – il video in anteprima diretto da Alan Koprivec



Fragile Friend, il Making of

Il videoclip di “Fragile Friend” è diretto da Alan Koprivec ed è un viaggio evocativo verso l’isolamento delle Alpi grigionesi.
Il regista lo ha descritto come un “percorso di accettazione e di crescita“. Un’assunzione di consapevolezza dove “non si può fare niente per fermare le cose che accadono sul nostro percorso
Koprivec ha scelto le forme del realismo magico, accentuato dalle scelte tecnico-espressive che emulano la grana della pellicola e privilegiano la camera a mano per seguire questo strano uccello antropomorfizzato.

L’ispirazione arriva dai costumi tribali e popolari “L’uccello, co-protagosista del video è stato realizzato ispirandomi a costumi tribali e popolari, con queste frange che si muovono al vento comuni in tantissime culture diverse“. La maschera per esempio, ricorda quella dei medici della peste.
Nel video viene impiegato in modo evidente la tecnica slow motion per enfatizzare il movimento delle piume. Il tentativo per Koprivec era quello di creare “una danza nella danza“.
Due giorni di lavorazione e una scrittura in fieri hanno caratterizzato la produzione del video.
L’idea di base si è sviluppata insieme al percorso e a questo viaggio di consapevolezza ai confini del mondo civilizzato.

Owner of a Lonely Heart VS Imagination di Storm Thorgerson

Il noto studio Hipgnosis fondato a Londra alla fine degli anni sessanta da Storm Thorgerson e Aubrey “Po” Powell per realizzare sostanzialmente le copertine dei maggiori dischi del panorama internazionale, subisce una battuta d’arresto tra il 1982 e il 1983, a causa di un vero e proprio travaso di energie creative, dirottate verso la neonata Green Back Films.

Desiderata e voluta dagli stessi Storm & Po insieme a Pete Christopherson, già parte di Hipgnosis a partire dal 1974, la casa di produzione realizzò in breve tempo una manciata di video e qualche long-form, per poi dissolversi dopo il 1985, in seguito ad una crisi finanziaria nerissima e per dissapori tra i soci già nell’aria da tempo.

Thorgerson continuerà a realizzare artwork per gli album di artisti internazionali e alcune incursioni nell’ambito video, mentre Christopherson dirigerà numerosi videoclip dalla seconda metà degli anni ottanta fino a tutti gli anni novanta, diventando uno dei registi più interessanti di tutta l’era catodica.
Per la Green Back la firma accreditata di quasi tutti i videoclip è quella di Storm & Po, ma la divisione dei compiti impiegava quasi sempre il primo dietro la macchina da presa e il secondo come produttore.

Owner of a Lonely Heart, il videoclip che veicolava 90125, l’undicesimo album degli Yes, fu girato a Londra e programmato frequentemente da MTV, soprattutto nella versione edit che escludeva la lunga intro con la band filmata all’interno di un teatro e un segmento senza musica che passa in rassegna la trasformazione dei membri della band in una serie di animali.
La versione pubblicata una decina di anni fa sul canale YouTube ufficiale della band, è quella integrale di 6,41 minuti.

Interpretato da Danny Webb poco dopo i suoi esordi televisivi, il video segue le tracce di un uomo comune nell’anonimato della folla mentre si reca presumibilmente al lavoro. Catturato da due funzionari di un non precisato stato di polizia, viene condotto in un palazzo molto simile a quello della Stasi o comunque modellato sull’immaginario di altri regimi, ed infine velocemente processato davanti alle autorità. Tutt’intorno lavoratori, persone in attesa e un popolo ridotto all’automazione. Il segmento è filmato in bianco e nero, mentre durante il percorso, l’uomo subisce numerosi shock di natura subcosciente che vengono rappresentati a colori.
I sogni lucidi coinvolgono animali di vario genere, inclusi quelli della prima parte del video, che invadono la quotidianità e il corpo dell’uomo. Spedito al centro di una fonderia collocata nel seminterrato del palazzo, l’uomo riesce ad evadere dopo una colluttazione e a raggiungere il tetto, arrampicandosi lungo una scala di servizio. Tutta la sequenza, incluse quelle successive, sono a colori, segnalando un passaggio tra due piani di realtà.

Gli Yes al completo compaiono ad uno ad uno sul tetto e circondano l’uomo, con una disposizione che ricorda molti degli artwork di Thorgerson, dove la geometria degli spazi reali contrasta sovente con un surplus di realtà simbolica.
L’uomo, accerchiato dalle diverse rappresentazioni della propria coscienza, almeno secondo una possibile interpretazione animista, fugge verso il bordo estremo del tetto e si lancia nel vuoto in un disperato volo libero. L’impatto non si verifica e il corpo lascia il posto ad un’aquila, la stessa in cui si è trasformato Jon Anderson all’inizio del video.

La soggettiva sulla città dall’alto è adesso quella disincarnata di uno sguardo ormai libero da qualsiasi legame, e l’uomo, di nuovo tra la folla e in cammino sullo stesso ponte dove l’avevamo incontrato all’inizio del video, cambia improvvisamente passo rispetto a quello collettivo e si dirige in direzione contraria, mentre il dispiegarsi di un paio d’ali invisibili occupa il campo sonoro.

La sinossi ci serve a comprendere prima di tutto la forma di un video narrativo molto diffusa nei primi anni ottanta, dopo una prima fase più sinestetica che giocava maggiormente sulle forme, i colori, le linee e i concept promozionali complessivi, sviluppati a partire dal lavoro grafico e fotografico sull’oggetto discografico stesso. Un esempio di cui abbiamo già parlato è Making Plans for Nigel realizzato nel 1979 per gli XTC.

Owner of a lonely heart circola tra l’ottobre e il novembre del 1983 e rappresenta un paradigma che Thorgerson ripeterà con esiti differenti, sfruttando la tendenza del momento orientata al racconto di piccole storie narrative, ma sostanzialmente minandone lo statuto dall’interno.
Quello che caratterizzava i suoi video era lo stesso spirito che aveva animato quasi vent’anni di creatività influenzata dai principi del surrealismo, nella costante inversione dei piani di lettura dell’immagine, tra ciò che intendiamo come realtà e la sostanza dei sogni.
C’è anche un aspetto organico, legato al rifiuto sostanziale di ogni intervento digitale, una resistenza mantenuta con coerenza anche quando era impossibile farlo e che ben si sposa con il peso specifico dell’industria videomusicale di quegli anni.
Se qualche anno dopo, per l’artwork di A Momentary Lapse of Reason dei Pink Floyd, Thorgerson trascinerà ben settecento letti vuoti sulla spiaggia di Saunton Sands Beach per realizzare una serie di scatti, questa stessa tendenza ad allestire imponenti realtà parallele, rimane pressoché invariata nei suoi videoclip, con alcune eccezioni dove proverà ad innestare la prima effettistica elettronica, conservando comunque un punctum fotografico fondamentale, come accade in Wouldn’t It Be Good, bizzarro metavideo realizzato per Nik Kershaw nel 1984, anche in questo caso sollecitato da una dimensione parallela come quella della memoria.

L’incubo ad occhi aperti di Owner of a lonely heart, al di là della chiusa metaforica apparentemente semplicistica ed esile, è interessante proprio per le interferenze tra diversi piani della visione, dove si innesca un dialogo tra musica e immagini di natura ritmica e generativa, che spesso emerge dalle liriche del brano per condurre segni e significati altrove.

Thorgerson utilizzerà un procedimento molto simile con il censuratissimo video di otto minuti realizzato per Belouis Some. (si vede da questa parte)

Nel 1985, l’italiana Videomusic trasmetteva il video integrale di Imagination solo nella rotazione notturna, a causa delle immagini ad alto contenuto erotico che ovviamente oggi potrebbero farci sorridere.

I due video sono molto simili per quanto riguarda l’innesco narrativo e coinvolgono la dimensione violenta di un regime, che impedisce la libera espressione dell’immaginario.
L’esplosione di una sessualità voyeuristica e promiscua consente al fotografo di sbizzarrirsi con una serie di riferimenti, tra gli altri, all’arte di Man Ray e al cinema di Stanley Kubrick, ricodificati secondo i parametri della stagione Supermodels che invaderà i territori dell’advertising e della videomusica anche nel decennio successivo. Libere associazioni del desiderio che si combinano con la musica per suggestione, sollecitazione, addizione, corrispondenza.
Superfici e metamorfosi belle da godere.

T.Rex – Jeepster live @ Beat Club 1971: il video di Michael Leckebusch

Il prossimo anno, a settembre, Beat Club compie 50 anni. Era il 1965 e dagli studi di Brema veniva inaugurata la prima trasmissione televisiva della Germania Ovest dedicata alla musica dal vivo, in onda ogni domenica pomeriggio. Nella tranquillità dei salotti tedeschi irrompeva un linguaggio che sarà tutt’uno con le imminenti rivolte studentesche.

Presentato dalla bellissima studentessa di architettura Uschi Nerke, il programma reagiva a Top of the Pops, proponendo per sette anni consecutivi più di ottanta episodi complessivi, ospitando grandi nomi della scena rock internazionale, tra cui The Rolling Stones, Led Zeppelin, Jimi Hendrix, Doors e molti altri.
Sarà un successo che non si limiterà alla Germania, ma raggiungerà altri paesi, tra cui l’Ungheria.
Mentre la trasmissione chiuderà i battenti nel 1972, dopo una brevissima parabola a colori, Radio Bremen 1 ha continuato a trasmettere musica dal vivo sotto il nome “Beat Club”, con l’immarcescibile Uschi Nerke.

Il 5 novembre del 1971, i T.Rex pubblicavano “Jeepster“, singolo tratto dal loro nuovo album intitolato “Electric Warrior”, secondo della fase glam-elettrica. La band di Bolan, che registrò numerosi contributi per la televisione tedesca, propose anche questo singolo durante il novembre dello stesso anno.

Le performance, tutte molto simili, ma nessuna uguale all’altra, erano caratterizzate dall’uso estensivo di feedback video e dall’impiego della tecnica Chromakey che immergeva i performer in una fantasia caleidoscopica in continuo movimento. Mentre i musicisti venivano collocati contro uno sfondo blu, un commutatore riempiva l’immagine con alcuni effetti elaborando saturazione e intensità in base all’illuminazione e al movimento dei loro corpi.
La regia di tutti gli episodi di Beat Club era curata da Michael Leckebusch, un pioniere della televisione musicale tedesca, che dopo questa avventura, continuerà con l’altrettanto seminale Musikladen, occupandosi sempre della regia e anche del montaggio.

Sul canale Youtube ufficiale di Beat Club, da cui è tratto il video di “Jeepster”, è disponibile un archivio sterminato costituito da quasi 1700 performance tra bianconero e colore, che includono l’intero broadcast della trasmissione.

Alcuni dei brani dei T.Rex di questo periodo sono inclusi nella colonna sonora di Longlegs, il bel film di Osgood Perkins in sala dal 31 settembre 2024.

Facs – Wish Defense: il video di Joshua Ford

Joshua Ford torna a collaborare con i Facs per promuovere il video di “Wish defense“, title track del nuovo album previsto per il prossimo 7 febbraio 2025 su Trouble in Mind Records e ultimo lavoro in consolle del compianto Steve Albini
La talentuosa band di Chicago, che ha reintegrato nella formazione Jonathan Van Herik, si è avvalsa anche della collaborazione di John Congleton, che ha ultimato il missaggio dell’album seguendo alla lettera le note e le indicazioni di Albini.
Il video recupera in parte la ricerca cromatica che Ford aveva scelto per la clip di When You Say: colori fondamentali e linee essenziali.
Più complesso il risultato in questo caso, che si affida alla performance della bellissima Megan Paradowski, coreografa losangelina, e ai costumi di Grace Kelly, giovane art Director, prop Stylist, & wardrobe stylist della città degli angeli.
Il risultato è una metamorfosi sorprendente tra set, luci e vestiti, che Ford decostruisce insieme ai movimenti della Paradowski in una serie di combinazioni gestuali e cromatiche che rilanciano la geometria tagliente del brano.

Paul Kalkbrenner – Kabelmann: il video di Björn Rühmann

Dopo la “Florian TrilogyBjörn Rühmann torna a collaborare con Paul Kalkbrenner per un dittico che può essere fruito separatamente oppure con le due parti montate insieme.

Non cambia l’approccio rispetto alla long-form di nove anni fa, ovvero considerare la musica come parte integrante di un cortometraggio narrativo, e quindi destinata, quando occorre, ad esser spostata sullo sfondo e rilevata con altri mezzi, attraverso il movimento e l’interazione dei personaggi nell’ambiente.

Molto simile anche l’esplorazione della realtà da parte di un personaggio estraneo alle dinamiche violente della suburbia e totalmente immerso nell’esperienza musicale, come possibilità di uscita dal mondo stesso.

Mentre Florian è un’adolescente che si scontra contro l’omologazione tribale della società, l’alterità di Kabelmann entra direttamente nel territorio del fantastico e crea dissonanze visuali evidenti, che nel primo caso si riferivano maggiormente alla fluidità del racconto di formazione e quindi al lessico del Cinema della realtà.
Nel nuovo video le rotture sono più esplicite e sono concepite per innescare la forza situazionale della commedia.
Anche la connessione con la musica compenetra il tessuto in modo metaforico, con l’ipotesi che dietro quest’uomo misterioso agganciato ad una manciata di cavi elettrici senza fine apparente, ci sia lo spirito stesso della techno concepita dal producer tedesco.

Kabelmann è allora quel pneuma che passa da Kalkbrenner ai fruitori, espressione di un’arte analogica che deve fare i conti con un mondo ostile, incapace di meravigliarsi.
Alla prima parte, che ricorda alcune visioni sci-fi come Starman di Carpenter o il più urbano The Borrower di John Mcnaughton, fa da contraltare una seconda più onirica, dove le violenze subite dal bizzarro uomo elettrico vengono associate ad una realtà parallela vicina al “paradiso” lynchiano di Eraserhead.

Si tratta di una visione meno interiorizzata rispetto al bellissimo Collider di Tom Hines per John Hopkins e che cerca di raggiungere risultati simili con scelte estetiche diametralmente opposte.
In entrambi i casi è il corpo ritmico al centro del discorso, come trasduttore fisico di energie sonore e di figurazioni visuali.

Kabelmann, il videoclip (Parte I)

Kabelmann, il videoclip (Parte II)

Caterina Barbieri direttrice artistica della Biennale Musica

La formazione classica unita alla sperimentazione e all’uso delle più innovative tecnologie rende Caterina Barbieri un tramite vivo tra epoca, stili e settori. La nomina di Barbieri alla direzione del settore Musica è, infatti, un attestato di fiducia verso l’intelligenza e il genio delle nuove generazioni, vere antenne del futuro”.

Sono le motivazioni di Pietrangelo Buttafuoco per la nuova, meritatissima nomina di Caterina Barbieri come direttrice artistica della Biennale Musica per il biennio 2025-2026

Pur giovanissima – ha aggiunto il presidente della Biennale – Barbieri ha alle spalle una consolidata carriera internazionale che vanta presenze nei maggiori festival e manifestazioni del mondo, tra cui la stessa Biennale di Venezia. La sua musica elettronica si allontana da stilemi rigidi e di nicchia per costruire dialoghi con molteplici pianeti sonori esplorando gli effetti profondi del suono su percezione e coscienza. Con la propria intuizione creativa Caterina Barbieri piega a sé la macchina usando il suono come ponte “imaginale” tra il fisico e il metafisico in connessione profonda e sensoriale col materiale e l’immateriale. L’approccio di sincera ricerca e curiosità verso la scena della musica contemporanea le darà modo di costruire qui, a Venezia, un festival in grado di interessare nuovi e più ampi pubblici”.

Sono molto felice di questo invito e davvero onorata di poter dare il mio contributo a Biennale Musica – dichiara Caterina Barbieri. Venezia non finisce mai di ispirarmi: la sua mutevolezza, gli echi e i riflessi, i suoi silenzi e la sua liminalità. La sua resilienza e il desiderio di infinito. Il suo dissolvere lo spazio e il tempo. Tutto questo è già musica”.

Nata a Bologna nel 1990, Caterina Barbieri è una musicista e compositrice italiana residente a Berlino, affermata nell’ambito della musica elettroacustica.

Nel 2012 si diploma in chitarra classica con Walter Zanetti al Conservatorio G. B. Martini di Bologna, dove nel 2014 consegue anche il diploma in composizione elettroacustica con Francesco Giomi dopo un periodo di studi al Royal College of Music e all’Elektronmusikstudion di Stoccolma. Nel 2015 consegue una Laurea in Lettere moderne all’Università di Bologna con una tesi in Etnomusicologia sul rapporto tra il minimalismo Americano e la musica classica indostana.

In pochi anni, Barbieri ha partecipato ad alcuni dei più importanti festival musicali al mondo, dall’Unsound all’Atonal, Primavera Sound e Sonar, e ha presentato il suo lavoro in sedi prestigiose come il Barbican Centre di Londra, la Biennale di Venezia, il Centre Pompidou, l’IRCAM e l’Ina GRM a Parigi, il Berliner Festspiele, l’Haus der Kunst di Monaco, il Museo Anahuacalli di Città del Messico, la Ruhrtriennale, la Philarmonie de Paris e il Festival di Cannes, tra i tanti.

Barbieri ha pubblicato otto album e nel 2021 ha fondato una propria etichetta indipendente, la “light-years”, con cui ha curato anche una serie di showcase invitata da realtà quali Centre Pompidou, Berlin Atonal e Southbank Centre.

Fin dall’album che l’ha rivelata, Patterns of Consciousness (Important Records, 2017), Caterina Barbieri lavora con la sintesi modulare e diverse formazioni elettroacustiche per esplorare gli effetti fisici e metafisici del suono sull’ascoltatore. La sua musica, descritta dalla rivista Pitchfork come “un viaggio che altera la mente” e “una dreammachine per le orecchie”, si basa sull’utilizzo di sintetizzatori modulari, dal più vintage Buchla a sistemi di nuova generazione Eurorack, per esplorare il potenziale psichedelico di complesse tecniche di computazione generativa. La sua ricerca investiga il rapporto tra tecnologia e processo creativo, esplorando temi legati alla memoria e alla fenomenologia della percezione, spesso indagando stati di alterazione della coscienza, estasi e allucinazione temporale.

Gli album successivi hanno incontrato un crescente apprezzamento critico: le nitide computazioni melodiche di Ecstatic Computation (Editions Mego, 2019) nominato tra i migliori album dell’anno da numerose riviste di critica internazionale; poi Spirit Exit (light-years, 2022), che incorpora un più ampio universo di suoni, monumentale e intimo, inesorabilmente futuristico eppure capace di evocare una profonda energia primordiale. Importante momento di evoluzione della sua musica, Spirit Exit, descritto dai critici come un “disco di ammaliante capacità compositiva”, è stato presentato in collaborazione con l’artista visivo Ruben Spini e il light designer e scenografo Marcel Weber in una serie di performance dal vivo dove il suono dialoga con la luce e il video per generare esperienze multisensoriali intense. Le esplorazioni elettroniche della Barbieri infatti non sono mai state confinate al formato dell’album: la sua ricerca, informata sia dalla sua viva pratica strumentale che dalla sua attenzione ai linguaggi del visivo, si affida all’esibizione dal vivo come mezzo di sviluppo compositivo, quasi si trattasse di un “organismo vivente”.

Nel 2019 è entrata nel catalogo dello storico editore musicale indostana Warp Publishing e nel 2021 ha firmato la colonna sonora del film John and the Hole diretto da Pascual Sisto e scritto da Nicolás Giacobone (film selezionato dal Festival di Cannes 2020 e presentato al Sundance 2021); nel 2023 le sue musiche sono state usate ne Il popolo delle donne del video artista e regista italiano Yuri Ancarani, film presentato alla 21. edizione delle Giornate degli Autori alla Mostra del Cinema di Venezia.

Quest’anno ha condiviso con Kali Malone, musicista statunitense già presente alla Biennale Musica 2023, la grande installazione sonora e ambientale dell’artista Massimo Bartolini intitolata Due qui/To hear, ideata per il Padiglione Italia nell’ambito della 60. Mostra Internazionale di Arte Contemporanea della Biennale di Venezia.

Nel 2024, Barbieri ha presentato in concerto a Parigi il suo nuovo lavoro Womb commissionato da IRCAM e Centre Pompidou per l’impianto multicanale dell’ESPRO e si è recentemente esibita in un tour in America e in Asia.

Greentea Peng – Tardis: il video di Aboveground

ABOVEGROUND ripete in un certo senso la formula del gettonatissimo i like the way you kiss me e contrappone lo spazio chiuso con i volumi urbani che ne plasmano l’esperienza. Rispetto allo splendido video diretto per Artemas, Tardis per Greentea Peng si apre maggiormente e contrappone la classica veduta della città dall’alto, che caratterizza un certo immaginario rock, con la prossimità dei corpi in un ampio spazio condominiale, vissuto in vari modi dai performer. Fa quindi collidere due tipologie di video, una legata a quella linea che procede dai settanta agli ottanta (dai Beatles agli U2 per ragioni di sintesi), da cui tra l’altro sottrae tutta l’epicità, isolando l’evento in mezzo ad altro cemento, e l’altra ancorata al crossover dei novanta.
Per offrire un senso maggiore di instabilità, utilizza una 16mm Bolex REX5 customizzata con un rig apposito, tanto da recuperare aura e capacità di una cinepresa utilizzata prevalentemente a mano nella Storia del Cinema di documentazione. A questo setting tecnico contrappone la visione aerea e più fluida di un drone, che ha soprattutto una funzione unificante, rispetto agli spazi caotici e vitali dove si muovono Aria Wells e band al seguito.
Ne viene fuori un’elegia del movimento che riqualifica di nuova luce le ferite degli spazi urbani, grazie ad una comunità capace di raccontarsi attraverso suoni e ritmo.

Disclosure – Arachnids: il video di Uncanny

Elliot Elder e George Muncey, conosciuti con il moniker di UNCANNY, sono rappresentati dalla Pulse Film, produzione londinese specializzata in videoclip e advertising, interessata a sondare il limite tra diffusione popolare e innovazione. Il duo ha diretto numerosi video sfruttando tecniche e formati non convenzionali, come il piano sequenza di Nobody Knows (Ladas Road), diretto per Loyle Carner, adattando il set alle capacità di ripresa dei dispositivi ad infrarossi.
Non è così diverso, almeno in termini concettuali, il video realizzato per la club music di Disclosure.
Arachnids è in parte una celebrazione del dancefloor, stilizzata sul volto della comunità danzante, illuminata e “congelata” da effetti strobo, glitch, freeze frames, tanto da rinnovare in una direzione marcatamente visual quella forma di ritratto collettivo di derivazione fotografica, che da Godley & Creme in poi si è moltiplicata attraverso migliaia video dello stesso tipo.
Ma c’è anche altro, perché nel tentativo di unificare questa antropologia del ballo con un’aracnologia visionaria che in qualche modo dovrebbe suggerire la morfologia spiraliforme del groove, si tende verso un risultato surreale e alieno.
Un bizzarro cyber-video che sembra innestare la tecnologia dove meno te lo aspetti e che non parla altre lingue rispetto a quelle del ritmo e dell’espressione fisica ad esso correlata.
Il tutto tra potenza e momenti di decompressione, che citano persino i suoni del folklore Armeno.

Sinedades – A la mañana: il videoclip in anteprima

Gli oggetti smettono di diventare tali e diventano cose quando cominciano a parlarci intimamente e a rivelarci un percorso. Cose in mezzo ad altre manifestazioni, complesse e più grandi. Da un fascio di luce che colpisce la rugiada, all’estensione a perdita d’occhio del mare.
Questa dimensione apparentemente semplice, eppure foriera di infinite storie personali e collettive è il motore che anima il nuovo video del duo Sinedades, diretto dalla stessa Erika Boschi, con il consueto sostegno tecnico di Agustín Cornejo, che come sappiamo oltre a condividere l’avventura musicale con Erika è anche un ottimo videomaker.
Rispetto ai precedenti video del duo, l’aria di festa e di vitale scambio lascia il posto al giorno dopo.
Una riflessione maggiormente intima su ciò che rimane dopo i ritmi di una vita frenetica dedicata a tutte le forme della musica. L’aurora del giorno dopo è quindi l’aura di un istante, l’immagine della luce, inafferrabile e mai identica a se stessa.

Ho iniziato a pensare al mattino come ad un momento quasi mitologico – ci ha detto Erika Boschi – fatto di una luce e un’aria incantate, romantiche e tenere. Un momento sperato, irraggiungibile, indimenticabile. Un desiderio, un’isola lontana. Attraverso i suoni rotondi, caldi e morbidi dell’organo, del piano rhodes e della slide guitar, penso al cuscino sprimacciato, alla luce che filtra dalla persiana, colori acquerello, all’odore di caffè, e l’ispirazione per la giornata rinnovata

Emerge chiaramente una dimensione pittorica e impressionista, nella relazione elettiva tra suono e liriche, parole e immagini. Qualità che Sinedades preleva in parte dalla cultura Brasiliana, per tramutarne i presupposti in una dimensione personale e universalmente intima.

A la mañana è una vera e propria elegia del risveglio, un canto cristallino e vibrante che anela positivamente alla vita.

A la mañana è il singolo che veicola il nuovo album del duo, intitolato semplicemente Sinedades.
Mentre l’uscita effettiva del video è prevista per il 2 novembre dopo la nostra anteprima lancio su indie-eye.it, l’album è già disponibile su Spotify a questo link

Sinedades è pubblicato da Blackcandy Produzioni.

Il profilo ufficiale instagram del duo è da questa parte

Dall’album Sinedades, su indie-eye abbiamo ospitato anche il video di Cuando te vi.