Prodotto da Jacquire King, già in consolle per Norah Jones, Punch Bros e Tom Waits, l’ultimo album di Robert Ellis ha forse qualcosa in più da condividere con la prima che con il terzo. Come per la Jones, la tradizione viene riletta senza derive decostruzioniste e con un’aderenza narrativa a suoni e luoghi di una cultura che gli arrangiamenti del produttore di Nashville esaltano con l’intenzione di donargli l’aura del classico più che la statura. C’è da dire che rispetto a Photographs, il lavoro precendente pubblicato da Ellis nel 2011, ci si allontana dal country di ascendenza rurale per privilegiare una gamma sonora molto più ricca che include incursioni orchestrali (Chemical Plant, Steady as the rising sun), brani concepiti a partire dalla “retorica” della pedal steel guitar (la rilettura di Still Crazy After all these years di Paul Simon) la presenza di un piano vaudeville e di un sax disperato in Bottle of Wine, forse il brano che più di altri sembra ispirato al lavoro di Randy Newman sui resti della tradizione, mentre una traccia come Pride, sviluppata dentro un guscio di chiarezza country-rock, a un certo punto sbilancia la percezione con una parte centrale fortemente Jazzistica. Tra racconti personali di viaggio, piccoli villaggi sperduti e il dolore della separazione, Ellis, anche in virtù della sua voce, sembra un crooner defilato, un narratore discreto che racconta il disorientamento di Cougar Mellencamp con attitudini che per certi versi non sono così distanti dal country di Willie Nelson; con questi parametri, è certamente interessante il tentativo che il songwriter di origini Texane compie nel contaminare i presupposti della sua musica con altri elementi della vasta tradizione americana, forse in modo anche più ricco di quanto non abbia fatto Ryan Adams, un’evoluzione tutto sommato da tenere d’occhio.