Non si ferma l’ondata vintagista legata ai sixties, anche a più generazioni di distanza da chi ha vissuto quel periodo d’oro per la musica pop. Gli Allah-Las sono i figli curiosi che ascoltano i vinili dei genitori (e anche quelli del negozio di dischi Amoeba Music, in cui tre dei quattro della band lavoravano). Da qui nasce questa passione quasi maniacale per legarsi a quelle assonanze magiche, già testimoniata con il buon esordio di due anni fa. Il garage rock della west coast va per la maggiore negli ultimi anni, prova ne è il successo oltre gli steccati dei circuiti indipendenti di band come Tame Impala, Unknown Mortal Orchestra e dei Tv-Buddhas.
Nello specifico delle dodici tracce che costituiscono Worship the Sun, sembra che il mondo sonoro dei vari Dick Dale e Challengers venga attaccato da più fronti con incursioni in altri universi sonori non estranei al contesto ma per gli Allah-Las comunque nuovi. Ad esempio in De Vida Voz una vena malinconica-messicana entra nel loro universo sonoro, mentre Every Girl viaggia tra i primi Rolling Stones e i Kinks. La strumentale Ferus Gallery apporta un bel crescendo in stile Time is on My Side, e anche altri pezzi come Had It All e No Werewolf agguantano bei riff. Se vogliamo proprio essere puntigliosi e cercare il difetto a tutti i costi sembra che i Californiani tirino dritto per la loro strada in modo rigoroso senza lasciarsi andare a quelle derive diaboliche o nutrite da qualche sostanza psicotropa. È un po’ come se “Worship the sun” contenesse bei brani da sottofondo, in una versione perfetta ma forse algida degli anni ’60. Molto interessante al contrario l’attaccamento alle proprie radici “desertiche” che si sbarazza della patina musicalmente “lomografica” dei Tame Impala. Proseguendo nell’ascolto, si trovano sensations più attuali, da indie rock alla Brad Sucks, come in Nothing to Hide, e pezzi che stanno in piedi da soli come Argument, con tanto di cori, e la bella Buffalo Nickel.
Accordate le loro Eko e Gibson, gli Allah-Las non cambiano la formula di fondo. A disagio con le attitudini della generazioni “Instagram” cercano di tirar fuori brani onesti e genuini, che esprimano al meglio la loro idea di sixties. Ci riescono sicuramente con gli strumentali, molto meno con la forma canzone. Il coinvolgimento emotivo nasce proprio dove manca la struttura tradizionale del brano cantato, evocando immagini di pura surrealtà, come un bicchiere di brandy sull’oceano, o una pistola puntata alla tempia nel mezzo del deserto del Moab. Potrebbe essere una via da considerare, il mondo del cinema cerca ancora dei nuovi Morricone, l’opzione non è assolutamente da scartare.