C’è rimasto qualcosa da dire sugli Arcade Fire? Non proprio, gli ascoltatori e chi prova a catalogarli non può far altro che seguirli, ammirarli, provare una rincorsa che non farà altro che danneggiarci dato che il seguente ascolto non sarà altro che un ennesimo cambio di rotta. Questa volta il concept album, l’ennesimo, trova dei legami ancora più forti per quanto riguarda musica e parole. L’aria spocchiosa, legata a quell’affezione che David Bowie ebbe per l’esordio Funeral, sembra essere passata, addirittura nello scontro tra il ritorno di Bowie sulle scene musicali e la loro carriera lanciatissima si ipotizzano scontri epocali (stile Blur–Oasis). Ma lasciamocelo dire, una volta tanto gli allievi superano i maestri. Con un disco così consistente, forte, imponente, eppure fragile in quanto costruito con gli specchi di una mirrorball da discoteca. Così senza tempo e così dentro al loro tempo.
Reflektor inizia con l’ammissione delle intenzioni della title track: siamo così connessi, ci siamo innamorati quando avevo diciannove anni, e adesso siamo davanti a uno schermo. Ha senso tutto questo? Riflette tutto ciò che proviamo, quest’era digitale. Il riflesso di un riflesso, ma tutto è così vero. Anche la resurrezione è un riflesso, non abbiamo scampo. Le percussioni in stile Sympathy for the Devil, accoppiate a una compressione da LCD Soundsystem (tutto il disco è permeato dalla loro aura, derivata dal produttore James Murphy, e registrato in Jamaica). We Exist non lascia speranze, prosegue il discorso sulla spersonalizzazione digitale, forse un riflesso delle molteplici attenzioni create con la notorietà. Pure il dub di Flashbulb Eye evidenzia questa paura, il fatto che Lucifero possa celarsi dietro la lente di una cinepresa. Uno sconvolgimento così reggae non accadeva da Sandinista! dei Clash.
E sempre su questa falsariga procede anche Here Comes the Night Time, con un andamento quasi salentino, alla Après la Classe, all’inizio, per poi turbinare come su montagne russe scandendo bpm diversi per accentuare stati d’animo diversi. Un esperimento riuscitissimo, grazie ancora alla produzione e alla crew di musicisti che è il collettivo Arcade Fire. Un carnevale notturno, l’epifania dell’anima che si scopre maligna e benevola come nei migliori romanzi di Stevenson. Un motivo di piano o di synth evidenzia una vena malinconico-giocosa in ogni traccia. Normal Person è il tributo a David Bowie, se mai ce ne fosse ancora bisogno, e ancora di più lo è You Already Know. Non sembra nascere tutto da Lodger, il disco danzereccio della trilogia bowieana, ma piuttosto da tutta la carriera del poliedrico artista. Il secondo disco comincia con la schizofrenica Joan of Arc, la martire morta per l’ipocrisia altrui, prosegue con la seconda parte di Here Comes the Night Time, stavolta meditativa (simile a Dream Again dei Franz Ferdinand, tanto per togliere l’aura di gruppo senza tempo alla formazione canadese).
Lasciando il passo a Orfeo e Euridice, il riflesso diventa angoscia, la vista necessaria per riconoscere il proprio amore da traghettare fuori dagli inferi. La “reflective age” di cui parlano gli Arcade Fire non è altro che la perdita dell’amore, l’impero delle immagini, la confusione tra realtà e finzione. Ma il gioco è funzionale anche al gruppo, che immagina Orfeo e Euridice in chiave soul-funk, sia anche nell’anticipazione dell’intero album pubblicata su youtube come sottofondo di Black Orpheus. Immagino l’interpretazione di Grace Jones e Sylvester come nuovi protagonisti. Porno non lascia spazio ad interpretazioni: tutta in chiave minore, sintetica fino a morire di Roland 808, immaginando la fine di quei ragazzi dei Suburbs, legati a schermi e film porno anche loro fino a morirne soffocati. E come in Rumore Bianco di DeLillo, il rumore della morte permea in tutta l’esperienza: anche nei tamburi e nelle percussioni dance, nel piano e nella voce degli amanti Butler-Chassagne. Una supersimmetria, la loro, da non confondersi con quella dei riflessi di schermi e specchi. In chiusura proprio Supersymmetry si lega a James Murphy. Forse proprio l’unione tra il genio degli Arcade Fire e l’evasione da New York City, i party e quel mondo manierista in cui Murphy ha vissuto e lavorato finora ha permesso la costruzione di un capolavoro. Che include sacro e profano nelle stesse canzoni, così da poter diventare un must per più di una generazione. Springsteen è rimasto in The Suburbs, fortunatamente, qualcosa di più moderno è nato, già un pezzo di modernariato, berlinese e newyorkese, al centro del mondo e dentro le stanze di ogni essere alienato.