Con la tendenza di Zach Yudin a fare il narratore di storielle d’amore guastate sotto il sole della California i Cayucas candidano Dancing at the blue lagoon a salire sul podio dell’ennesima prova estiva in salsa agrodolce, complice anche il sound afro-beat che viene ripreso senza troppe variazioni dall’album precedente (Moony Eyed Walrus, Hella su tutte) con una propensione maggiore all’orchestrazione pop (l’intro cinematico di Big Winter Jacket e il piano avvolto dagli archi di Champion) che contribuisce positivamente ad allontanarli dal contesto espressivo in cui si muovono già i Vampire Weekend.
Al di là dell’artwork del disco in stile prettamente californiano, tra piscine, palme e un font che ricorda un noto album degli Eagles, le preferenze dei fratelli Yudin sono quelle calypso, messe al servizio di un pop dal retrogusto ottantiano, quasi fossero una versione aggiornata degli Haircut 100 e una più rallentata degli Aztec Camera, tropicalismi inclusi.
Si ascoltino a questo proposito la title track e un brano come Ditches dove l’africa smuove un contesto ripulito da aperitivo a bordo piscina. Da questo punto di vista, rispetto alla formula asettica e modaiola dei Vampire Weekend, i Cayucas ci piacciono molto di più, per il modo svagato e malinconico con cui introducono influenze messicane e ispaniche, tanto da generare uno strano ibrido tra disimpegno estivo e la tristezza che accompagna la fine di una festa, mentre i flamingoes si stagliano all’orizzonte.