Per chi si è innamorato di loro con Room Filled With Light, l’ultimo capitolo dei Fanfarlo, il terzo, potrebbe creare qualche indugio nonché reticenze momentanee. Sarà che molti fra i Romeo innamorati si accorgono solo ora che gli inglesi Fanfarlo non sono la stella doppia dei canadesi Arcade Fire, sarà che il patrocinio iniziale di David Bowie aveva creato – diciamo – un’ottima predisposizione alla ricezione di Reservoir, album del debutto, e che la mancanza di un’altra voce autorevole ho rotto oggi gli incanti creati allora dal Duca Bianco, fatto sta che questo Let’s Go Extinct è stato accolto in modo ritroso e scostante. Il che suona quanto meno curioso, visto che il terzo capitolo si rivela non solo il più maturo della trilogia, ma anche il più completo dal punto di vista della scrittura e della narrativa interna. Let’s Go Extinct racconta una storia, una vicenda che si sviluppa dando vita ad un vero concept, la cui origine affonda nella più ancestrali delle questioni, quella che collega l’origine e la fine dell’umanità lungo una parabola discendente di cui difficilmente si può indovinare la fine.
Una sinossi darwiniana che affronta le sorti dell’evoluzione umana, l’inizio, la fine e la stranezza di vivere – necessariamente – con gli altri. Consegnata l’apertura a Life In The Sky, Simon Balthazar riprende un adagio dal gusto Matrix per descrivere lo sviluppo dell’umanità come l’inocularsi di un virus sulla terra; la vita espressa come niente più che un contagio. Da qui, procede il racconto sul patire della terra (Cell Song), sul destino dell’umanità (Let’s Go Extinct), fino all’infinita solitudine che accomuna ogni singolo. Dieci tracce che si tingono delle influenze pop che oscillano fra gli anni ’80 e ’90, evocando ora i Talking Heads ora gli slanci effervescenti alla Super Furry Animals. Immerso nei plateali arrangiamenti per violino, flauto, pianoforte, Let’s Go Extinct raggiunge riflessi boreali di alto gusto, come nella cristallina The Grey and Gold o nell’esplosione orchestrale in Painting With Life.
Quello che si può appuntare ai Fanfarlo è di essersi incartati in un tema pseudo-filosofico e sensista che gira su sé stesso approdando solo all’inconcludenza, di essersi cimentato in discorsi sui massimi sistemi presi dal fascino dell’argomento piuttosto che dalla sostanza delle argomentazioni. Nonostante ciò, “there is gold beneath the ashes”, come recita la strofa di The Beginning and the End, e solo un minuzioso scavo archeologico può portare alla luce la bellezza nascosta nel disco.