I Quartieri sono tornati a più di tre anni di distanza dal loro EP d’esordio, Nebulose, con un nuovo album, Zeno (recensito su Indie-Eye da questa parte), che li ha posti all’attenzione della critica e del pubblico grazie al suo mood onirico, con retaggi shoegaze e non solo, e ai testi in bilico tra disperazione e voglia di reagire. Nelle ultime settimane il quartetto romano ha iniziato il tour di supporto al disco, che da qui all’estate li porterà un po’ ovunque in Italia. In occasione di una delle prime date, quella al Magnolia di Segrate, li abbiamo incontrati per una lunga chiacchierata a ruota libera sulla loro musica, le parole più adatte per definirla e le loro aspirazioni in questi anni di morte della discografia. Ecco cosa ci hanno detto Fabio Grande (F), Marco Santoro (MS), Paolo Testa (P) e Marco Pellegrino (MP). (la foto di copertina è di Giulia Trasacco)
Sono passati tre anni tra l’uscita del vostro primo EP, “Nebulose”, e quella di “Zeno”. Come mai tutto questo tempo?
F: in realtà non abbiamo aspettato, i tempi hanno avuto la meglio su di noi perché durante quei tre anni la band effettivamente si è formata, è cambiata la formazione, sono subentrate persone e ne sono uscite altre. Quando era uscito l’EP non esisteva una band vera e propria, avevamo fatto qualche concerto perlopiù in acustico, per un anno, un anno e mezzo. Poi ci siamo consolidati in questa formazione a quattro e da quel momento abbiamo potuto ragionare anche sul disco, che all’inizio non era neanche previsto. Quindi siamo diventati una band vera e propria dopo essere nati formalmente.
MP: siamo subentrati io e Paolo in un momento successivo all’EP, alla fase di transizione di scrittura dei pezzi del disco, a cui abbiamo contribuito
F: tra lo scriverlo, l’arrangiarlo e l’inserire qualcosa dei nuovi arrivati è passato ancora un po’ di tempo
MS: e ancora un po’ per registrarlo e poi attendere i tempi dell’etichetta, che ha un suo calendario. Non è più come negli anni settanta, quando si andava in studio e dopo quattro giorni usciva il disco, ora ci si lavora, lo si riascolta.
E la scelta di produrre il disco da soli da dove arriva?
F: avendo le idee abbastanza chiare, ed essendo anche abbastanza gelosi delle idee che abbiamo, ci è sembrata la scelta più naturale. In realtà non ci siamo mai domandati se volessimo farlo produrre a qualcuno, anche perché si trattava di un nuovo esordio per noi e volevamo misurarci anche con questa cosa. Siamo contenti così e vorremmo continuare così per sempre, a meno che non venga Damon Albarn a chiederci di collaborare…
I testi sembrano tutti parlare di perdita, sia a livello affettivo che in termini più globali. È una giusta interpretazione? Vi sentite così persi e “morti dentro”, come dite in chiusura di album?
F: in realtà i testi puntano il dito contro quel tipo di situazioni emotive, che probabilmente abbiamo vissuto anche noi dall’interno, però non è il mood sul quale siamo settati. Non ne parliamo in termini di autocommiserazione, nel disco c’è sempre un momento in cui si dice “c’è qualcosa che non va e va cambiata”, non “c’è qualcosa che non va e ci sollazziamo per questo”
MP: l’atmosfera è un po’ quella di un purgatorio, non c’è una verità definita, c’è una sorta di monito, di suggerimento velato. Il nostro atteggiamento non è pretenzioso, non vogliamo essere dei sacerdoti della morale.
P: molte persone hanno visto questo passaggio dall’EP al disco, come se l’EP fotografasse la fine di qualcosa in modo sereno, mentre il full lenght identificava un momento successivo, in cui emerge la negatività, però in verità io non ce la vedo molto questa cosa.
F: forse il disco è condizionato anche dalla musica, siamo consapevoli di non avere un sound solarissimo, quindi il modo in sui suonano i pezzi può assecondare questa visione che si ha dell’album
MP: secondo me c’è comunque una solarità, una vivacità nascosta. Non bisogna per forza essere dei punkettoni per dimostrare una militanza virile nel dire qualcosa, la militanza può essere anche più celata o comunque più dolce e pacata. Noi quattro siamo così, poi sia io che Paolo suoniamo in altri gruppi dove pestiamo come dei pazzi, però in questa unione abbiamo fatto emergere il nostro lato docile.
Ho incontrato molti musicisti che hanno progetti così differenti o che hanno iniziato con un genere e poi sono finiti a fare tutt’altro…
MP: secondo me diventa un’esigenza quella di esplorare campi diversi, lo puoi fare anche restando solo in un gruppo, ma non è così facile. Io ho iniziato facendo cover dei Radiohead, poi con quei musicisti ho esplorato molti suoni, finendo a fare cose abbastanza stoner. Però avevo l’esigenza di continuare a percorrere una strada diversa che corrisponde ai miei gusti musicali. Mi piacerebbe anche entrare in un altro progetto, ma è meglio di no per ora… (continua nella pagina successiva…)