Una nuova a casa a New Orleans e un sound ispirato alla città; Los Angeles è alle spalle, ormai invivibile per la musicista di Chicago e altre sono le sue esigenze, tra cui prendersi il tempo per scrivere nuove canzoni e pensare alla figlia. Sono dieci anni che Rickie Lee Jones non registrava un album di canzoni inedite anche se tra quelli dove omaggiava la musica della sua formazione, The Devil You Know del 2012 era un vero e proprio lavoro di ri-scrittura che ci raccontava quanto il talento e l’intensità fossero ancora intatti.
Finanziato con una campagna di Pledge Music racconta l’atmosfera più creativa di New Orleans, città che ha conosciuto per la prima volta nel 1989 grazie a Dr. John, quando i due realizzarono una versione di “Makin’ Whoopee“. E attraverso le 11 canzoni dell’album ritroviamo quell’atmosfera comunitaria, legata alla musica come urgenza espressiva e ancora libera dalle logiche del mercato, ma come se fosse uno strato in superficie da approfondire e che rivela a poco a poco lo storytelling intimo che ha caratterizzato dal 1979 fino ad oggi gli album migliori della Lee Jones, fatti di incontri, rivelazioni e tutti i gesti d’amore condivisi con le persone che ha incontrato.
Louis Michot, parte del combo Cajun dei Lost Bayou Ramblers ha in qualche modo contribuito a creare una connessione tra la città e la scrittura della Lee Jones, un’amicizia che si è tradotta nella composizione di Waltz de Mon Pere, mentre la band che l’accompagna nel disco si componeva a poco a poco di musicisti locali come Jon Cleary, James Singleton, Shane Theriot e Doug Belote.
Ed è lei stessa che attraverso alcuni degli scritti pubblicati sul suo blog racconta la natura molteplice delle sue scelte, dove lo spirito individuale si fonde con quello collettivo: “New Orleans è una città eccentrica. È come un’isola e come in tutte le isole, le persone vivono giorno per giorno senza pianificare troppo le loro vite, affrontando le cose con quello di cui dispongono. Ho visto una città di persone che non cercano di evitare la pesantezza delle cose. E ho anche guardato negli occhi dei bambini, vedendo me stessa. Disperati e alla ricerca di una vita migliore bussavano alla mia porta chiedendomi se potevano pulirmi il cortile o buttarmi via la spazzatura […] la città ha condiviso tutto con me. La sua pace, le sue persone, la sua musica”
Ecco allora che The Other side of desire risente dei suoni dell’ambiente, dei treni e del fiume, della gente ma anche della storia personale e musicale di Rickie Lee Jones, la cui continuità viene garantita anche dell’esperienza di un produttore come John Porter, grande conoscitore della musica britannica e statunitense e responsabile di un suono che riesce a raggiunge il giusto mezzo tra jazz e blues, come nei dischi migliori della musicista americana.
È un’aura classica che si muove intorno al drumming di Doug Belote, il basso acustico di Singleton e gli inserimenti del wurlitzer suonato da David Torkanowsky, ma innestandosi perfettamente nel contesto musicale della città tanto da ricordare quel crocevia tra bluegrass e New Orleans Jazz che attraversa alcuni album di Will Oldham.
Basta abbandonarsi al blues di Blinded By the hunt per ritrovare quello che conoscevamo della sua musica, tra lievi inflessioni reggae e un incedere innodico, tappeto sonoro per una voce che non risente affatto dei sessant’anni d’età.
E se la bellissima Haunted rimane a metà tra speranza e dolore, facendo un bilancio delle esperienze più forti senza cancellare il dolore, Christmas in New Orleans sembra assorbire tutto lo spirito di una città che vive a metà tra questi sentimenti antipodali, dove sullo sfondo del piano, dell’hammond e di una sezione fiati che sembra provenire da lontano Rickie Lee Jones canta “when you’re lost out here, on The Other Side Of Desire, Come on in and warm your hands on our eternal fire”
Ancora una volta Rickie Lee Jones parla alla nostra anima e lo fa scegliendo la musica come linguaggio dell’empatia, una jam diretta e che cerca una connessione altrettanto diretta con chi ha il privilegio di ascoltarla, come la madre della conclusiva A Spider in the circus of the falling star, che accetta la forma del sacrificio a patto che la sua mano possa nutrire la bocca della figlia.