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Autechre live @ Brancaleone, roma 15 marzo 2008

Un celebre dizionario del cinema è solito esprimere giudizi di qualità assegnando un numero di stelline, variabile da una a quattro, alle pellicole recensite. In questo contesto i pallini bianchi vengono utilizzati per sottolineare le delusioni, i passi falsi dei registi la cui carriera avrebbe fatto sperare in qualcosa di meglio. Bene, forse un simbolo grafico di questo tipo mi sarebbe d’aiuto nell’esprimere il totale sconcerto provato in occasione dell’esibizione romana degli Autechre.

Bisogna precisare che ero stato messo in guardia circa il possibile esito della serata: al Brancaleone, mi si dice, suonano House (parola pronunciata con esplicito tono di disprezzo)…Eppure il posto mi aveva fatto una buona impressione, bei locali, tre sale e pubblico rappresentativo di varia umanità. Senza contare che mi aspettavo fossero gli headliner a dettare legge, professionisti il cui spessore artistico è fuori discussione, veterani forti di un seguito consolidato che dovrebbe permettere loro di fare il bello e il cattivo tempo in ogni situazione. Dire che apprezzo gli Autechre sarebbe riduttivo: li considero semplicemente una delle cose più importanti accadute alla musica negli ultimi venti anni. E non mi riferisco esclusivamente al settore elettronico, naturalmente. Punta di diamante del filone Artificial Intelligence inaugurato dall’etichetta Warp, il duo inglese ha prelevato dalla strada il suono dell’ Hip-Hop per conferirgli la dignità propria delle sinfonie classiche. Assimilate le aspirazioni cosmiche dei Tangerine Dream, il motorik da catena di montaggio di Cluster e Kraftwerk, le derive ambientali di Eno, le suggestioni chill out degli Orb e del primo Aphex Twin, Sean Booth e Rob Brown hanno compiuto una maniacale opera di destrutturazione e rielaborazione del concetto stesso di ritmo. Quello forgiato dagli Autechre nel corso degli anni novanta è un linguaggio atto ad esprimere l’inesprimibile, una sorta di autismo volontario che ben rappresenta la condizione di isolamento e il processo di disumanizzazione dell’individuo.

Artisti capaci di tanto, a Roma hanno dato la spiacevole impressione di voler accontentare i gusti dei frequentatori abituali del locale. Per la prima metà del set quanto partorito dai due, che come di consueto suonano nell’oscurità totale, è semplicemente inascoltabile. La Techno – in versione rave alla ketamina – sembra essere il modello di riferimento. Come se questa svolta tamarra non fosse già di per sé sufficientemente dolorosa, i beat provenienti dalle casse non hanno un briciolo di groove. Sono pur sempre gli Autechre, e ci tengono a dimostrarlo…quaranta minuti di cadenze ultraveloci e andature incespicanti hanno l’unico effetto di peggiorare in maniera drastica la mia tachicardia. A quanto pare, però, sono l’unico ad essere contrariato. Il grosso del pubblico sembra apprezzare e alcuni hanno persino il coraggio di ballare. Ma ho il sospetto che questi ballerebbero pure Casadei, al momento. Per mia fortuna Booth e Brown decidono di rallentare il passo e si assestano, per la seconda metà del set, su cadenze Dubstep (di cui sembra sia infarcito l’ultimo lavoro Quaristice) a loro sicuramente più consone. Le atmosfere dilatate offrono il non trascurabile vantaggio di rendere apprezzabili gli intrecci ritmici cui il duo deve la propria fama. Sennonché, interviene in questo frangente il fattore qualità del suono, davvero ignobile. Ho il terribile presentimento che anche questa sia una scelta stilistica, visto che nessun altro, prima o dopo di loro, ha una resa sonora così pessima…beh, fortuna che la serata è chiusa dal set di Marco Passarani (!)…

Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco
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