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La mia terza visita al Parc del Fòrum risente indirettamente dei tumulti che hanno scosso la Penisola Iberica qualche settimana fa. I Mossos d’Esquadra hanno sgomberato a forza Plaça Catalunya, da giorni presidio dagli Indignatos. La reazione del popolo in rivolta non si è fatta attendere: quando nel pomeriggio visito la piazza centinaia di giovani catalani hanno nuovamente preso possesso del territorio, lasciando intendere che la protesta non si fermerà tanto facilmente. Mi allontano nel pieno di una gioiosa cacerolada, lo spirto guerrier ch’entro mi rugge ritemprato dal suono di mille pentole urlanti. Un epilogo “concreto” che funge da perfetto trait d’union con la prima performance della serata. Nell’intima cornice del Ray-Ban Stage mi soffermo estasiato ad osservare l’armamentario percussivo che gli Einstürzende Neubauten utilizzeranno da qui a breve per trafiggere i nostri timpani e le nostre anime. Dal vivo i tedeschi sono una rodatissima macchina da guerra: i loro set rivelano una professionalità impeccabile, grande sensibilità musicale e totale controllo della situazione. Sembra lontana anni luce l’epoca in cui i palcoscenici prendevano fuoco, o venivano perforati dai rostri di martelli pneumatici impazziti. Blixa Bargeld si muove sornione nel suo completo di sartoria, a tratti dandy alcolizzato, a tratti carismatico lettore di filosofia. Lasciate alle spalle l’angoscia e la disperazione di un tempo il cantante ha sviluppato un raffinato senso dell’ironia, arma segreta che gli permette di guadagnare la totale adorazione del pubblico. Gigioneggia Blixa, ammicca, blandisce la folla con l’arguzia che solo un navigato entertainer può sfoggiare, forte del sensuale accento teutonico che la sua pronuncia dell’inglese lascia trasparire. Le incredibili doti vocali gli permettono di spaziare agilmente da atti di terrorismo sonoro come Haus Der Lüge o Headcleaner a composizioni quiete e spettrali come The Garden, Sabrina e Silence is Sexy. L’autocontrollo del frontman è bilanciato dall’irruenza di Alexander Hacke, che al contrario non risparmia neanche un’oncia di energia: agita furiosamente la testa e suda copiosamente sulle corde del suo basso per l’intera durata del concerto. Mentre il percussionista N.U. Unruh si esibisce in un divertente siparietto futurista il crepuscolo cede il passo all’oscurità, ed è già ora di spostarsi verso il San Miguel Stage dove ci attende PJ Harvey. Il palcoscenico è letteralmente assediato dagli spettatori, impazienti di ascoltare dal vivo i brani del recente Let England Shake. I primi a calcare la scena sono i musicisti, tra cui spicca un accigliato Mick Harvey intento a destreggiarsi fra basso e pianoforte. Polly Jean fa la sua entrata trionfale vestita di una tunica bianca, il capo cinto da una corona di piume; un look da moderna vestale che sembra suggerire al tempo stesso candore e aggressività primigenia. Anche la scelta di snobbare quasi totalmente la chitarra, a cui la cantante inglese preferisce una sorta di piccola cetra, riflette umori ancestrali e misteriosi. Date le premesse la performance ha ben poco a che fare con il rock: tanto gli ultimi successi quanto gli arrangiamenti dei brani classici presentano rarefatte atmosfere folk, intrise di misticismo grazie all’eccezionale ugola della Harvey. Sarei felice di trattenermi ancora a lungo ma le pressioni della folla mi irritano; faccio dunque ritorno al Ray-Ban Stage per godermi il set dei redivivi Swans. Saranno loro ad illuminarmi d’immenso, surclassando per intensità e ferocia qualunque esibizione a cui ho avuto modo di assistere nell’arco di queste tre giornate campali. Chi avrebbe potuto immaginare che dopo uno iato durato 13 anni Michael Gira e compagni sarebbero tornati più agguerriti che mai? Eppure quello che i newyorchesi ci offrono stanotte va al di là di ogni più rosea previsione: la brutalità con cui i nostri seviziano il recente My Father Will Guide Me up a Rope to the Sky spalanca una sorta di falla temporale, rievocando atmosfere da lercio club lower east side, come se il 1984 si fosse concluso soltanto ieri. L’azione combinata di due batterie, tre chitarre e un basso genera un’impressionante ondata di rumore bianco, che costringe il pubblico ad arretrare di un passo per non compromettere definitivamente il proprio udito. Gira non calca più il palco a petto nudo, ma nonostante il taglio di capelli e gli indumenti rispettabili appare ancora oggi come un bestia inquieta. Durante i tenebrosi crescendo che da sempre costituiscono il marchio di fabbrica della band i lineamenti del suo viso vengono deformati dallo sforzo, e in più di un’occasione il frontman rivolge al cielo urla liberatorie. La concentrazione e l’intensità con cui il cantante si avventa sulla sei corde durante i passaggi più impegnativi provocherebbero un aneurisma – o perlomeno una crisi di nervi – in qualunque individuo normodotato. Ma Gira è al contrario un colosso indistruttibile, più duro di me, voi, o chiunque altro sulla faccia della terra. Quando la climax raggiunge il culmine e gli amplificatori trasmettono solo il suono stridente dei feedback, il nostro saluta il pubblico e coglie l’occasione per dare il suo appoggio alla protesta che anima la nazione spagnola. Con voce fiera e potente il gigante pronuncia poche parole, che nei giorni successivi continueranno a rimbombarmi nella testa, neanche fossero rivelazioni divine piovute giù dal cielo: “Rise up Spain, overthrow Capitalism, long live Socialism! Now! NOW!”. Nel frattempo gli Animal Collective si apprestano a calcare il San Miguel Stage… solo poche ore fa avrei sgomitato per guadagnare le prime file ma ho appena vissuto un’epifania, e le faccende terrene hanno ormai perso ogni interesse. Mi lascio inghiottire dall’assoluto, preparandomi ad affrontare una nuova, consapevole esistenza. Gloria, gloria, hallelujah.