I festival rock e la pioggia: un’accoppiata ricorrente nella storia, un legame che appare indissolubile e capace di sovvertire qualunque statistica meteorologica, come se la fantozziana nuvoletta dell’impiegato abbia un suo corrispettivo musicale. Probabilmente l’unico evento che riesce ad evitare precipitazioni malandrine è il Festival Au Desert, in mezzo al Sahara, ma non ci giurerei. Fatto sta che il Rock En Seine inizia come poi finirà, cioè con un acquazzone improvviso, preannunciato solo da qualche soffio di vento leggermente più forte del normale. La conseguenza, per chi scrive, è la rinuncia ai concerti dei Minus The Bear e degli All Time Low, portatori di verbi completamente diversi ma entrambi poco attraenti. Per fortuna quando è il momento dei Band Of Horses le nuvole si diradano e un tiepido sole riesce a scaldare il pubblico, per il momento non troppo numeroso. La band capeggiata da Ben Bridwell sta promuovendo il nuovo disco, Infinite Arms, il più pop e pacificato della loro discografia finora. La differenza tra i nuovi brani e quelli degli album precedenti è evidente anche dal punto di vista live: le emozioni e il pathos di brani come The Great Salt Lake o No One’s Gonna Love You non si ritrovano infatti nelle canzoni datate 2010, a parte forse Laredo, con i suoi rimandi a Neil Young. Il concerto è comunque più che apprezzabile, perché la voce di Ben rimane sempre e comunque un valore aggiunto in ogni istante, fino al gran finale, che non può che essere The Funeral (scusate l’involontaria battuta), il primo grande momento del festival, ingiustamente relegato su un palco secondario (la Scène de la Cascade). L’ingiustizia appare ancora più grande perché in quel momento sul main stage (chiamato Grande Scène) c’è Kele col suo progetto solista. Il suo disco non è granché, il live lo segue a ruota: l’impressione è quella di assistere ad un revival delle peggiori discoteche degli anni ’90, con il cantante dei Bloc Party che sembra più un vocalist che altro, impegnato anche a distruggere in un solo medley tre delle migliori canzoni del suo gruppo, cioè Blue Light, The Prayer e One More Chance. Tutto questo tacendo sul singolo (una volta si sarebbe detto riempipista) Tenderoni, alquanto imbarazzante. Tutta questa electro di grana grossa mi carica di timori quando il concerto degli Skunk Anansie inizia con una versione drum’n’bass di Yes, It’s Fucking Political. Per fortuna il tutto dura circa due minuti, dopo i quali la band inglese torna alla normalità, cioè al suo rock anni ’90 senza infamia e senza lode, nobilitato dalla voce e dalla presenza scenica di Skin, capace da sola di tenere in scacco una folla sempre più numerosa ed eterogenea. Se solo avessero in scaletta qualche canzone decente in più oltre a Hedonism e a Twisted il concerto sarebbe più che buono (per esempio una Secretly o una She’s My Heroine avrebbero dato qualcosa in più), così ci si ferma a una sufficienza stiracchiata, tutta merito della cantante. Dopo una breve visita ai Kooks, con la conferma della pochezza degli inglesi, e una regale cena a base di patatine fritte (perfetto di mix di economicità e commestibilità) scocca l’ora dei grandissimi Cypress Hill. Le leggende del rap latino fanno un concerto vero e sentito, con la giusta dose di cattiveria, trascinando la folla come pochi altri nella tre giorni parigina; la loro musica e la loro bravura superano ogni barriera, di genere e di razza, conquistando praticamente tutti, compreso il sottoscritto, che con il latin rap non ha mai avuto particolari legami. Provate voi a non ondeggiare col braccio alzato durante Insane In The Brain… L’ottimo momento continua con i Black Rebel Motorcycle Club, che probabilmente fanno il miglior concerto della tre giorni, probabilmente spinti dalla rabbia e dal dolore per la morte di Michael Been, il padre di Robert. Siamo a un festival rock e loro, molto semplicemente, danno alla gente del rock. Per circa un’ora il trio di San Francisco non sbaglia una virgola, suonando con forza e precisione ed inanellando uno dietro l’altro tutti i migliori brani della loro carriera. Attaccano con Beat The Devil’s Tattoo, proseguono, tra le altre, con Love Burns, Stop e Ain’t No Easy Way (da quella perla sottovalutata che fu Howl), per poi passare a Berlin e Weapon Of Choice in attesa del finale, che va a ripescare i due singoloni che fecero gridare al miracolo nel 2001, quando uscì il primo disco. In effetti ancora oggi sentire Whatever Happened To My Rock’n’Roll (Punk Song) e Spread Your Love è un piacere assoluto, ancor più se suonati così bene, con Peter Hayes e Robert Levon Been in stato di grazia vocale e strumentale e la nuova batterista Leah Shapiro a picchiare come si deve. Dal meglio al peggio spesso il passo è breve: in questo caso sono i cinque minuti che separano la Scène de la Cascade, la casa dei BRMC, dalla Grande Scène, dove sono di scena gli headliner della prima serata, cioè i Blink-182. Davanti a un pubblico composto per lo più da 15enni e da 25-30enni nostalgici dei loro quindici anni il trio californiano azzecca poco o nulla. Non sono un fan della tecnica in tutto e per tutto, però se si va oltre il limite della decenza non riesco a stare in silenzio a subire: non è possibile che un gruppo che ha suonato assieme per anni si presenti sul palco e dia l’impressione che ognuno stia facendo una canzone diversa, con il batterista lanciato in funambolismi inutili per delle canzoni punk-rock e basso e chitarra che viaggiano su binari separati e diretti chissà dove, senza voce e con controcanti fuori tempo (qualunque esso fosse). L’unica cosa che può trattenermi davanti al palco è l’attesa di quelle due-tre canzoni legate a ricordi adolescenziali (The Rock Show, What’s My Age Again? e All The Small Things, per la cronaca) . Una volta passate quelle mi sento libero di andarmene, anche perché sveglio dalle 4.30 del mattino.