(Foto di Francesca Pontiggia)
Il terzo e ultimo giorno di Rock En Seine è quello degli Arcade Fire, il gruppo del momento, capace di arrivare al numero uno negli Stati Uniti e in Regno Unito, fatto rarissimo per un gruppo indipendente come quello canadese; si capisce fin dal pomeriggio che l’attesa è tutta per loro, attesa che non verrà delusa, almeno fino all’intervento di Giove Pluvio.
I concerti iniziano nel primo pomeriggio, con Wallis Bird che si impossessa della Scène de la Cascade e la trasforma in un gioioso mondo a base di ironia e di ottime canzoni che mescolano con un sorriso rock, folk e un pizzico di soul e funk. Impossibile non divertirsi con la cantante irlandese e i suoi compagni d’avventura, sempre pronti a virare sullo scherzo gli intermezzi tra una canzone e l’altra, coinvolgendo anche il pubblico, che dimostra di apprezzare. Un’ora che scorre via veloce e che mi fa perdere l’inizio del set dei Temper Trap alla Grande Scène: riesco così a vedere gli australiani in azione per 3-4 canzoni, tra cui naturalmente Sweet Disposition, senza cogliere nessun segnale che li possa innalzare dalla marea di gruppi indie da una hit e via. Vedremo in futuro cosa ci riserveranno.
Da questo momento, per motivi lavorativi o legati alla sorte avversa, il vostro inviato non riesce più a seguire per intero un concerto, gustandosi solo qualche spizzico qua e là. I primi della lista sono i Black Angels, il gruppo più psichedelico del festival: il loro suono è di una potenza non indifferente, con chitarroni effettati e impegnati in iterazioni acide, con un tocco leggermente più pop (termine da intendere in senso lato) nei due brani del nuovo disco che riesco ad ascoltare e ben più pesante nei pezzi tratti dalle prove precedenti.
Anche Mark Everett, il signor E, ha pronto un nuovo disco; attacca però con Prizefighter, seguita da due cover vecchie di circa quarant’anni, cioè She Said Yeah dei Rolling Stones e Summer In The City dei Lovin’ Spoonful, rese entrambe in maniera assai particolare, con quella psichedelia pop che solo gli Eels sanno maneggiare. Il resto posso solo immaginarlo, purtroppo, ma qualcuno deve pur farle queste interviste.
Al mio ritorno mi attende Beirut e un pubblico molto numeroso: infatti Zach Condon in Francia è molto amato, forse perché è uno dei pochi capaci di aggiornare in modo interessante la tradizione musicale europea (e anche transalpina), pur essendo americano. In più inizia il concerto con Nantes, ingraziandosi ancor di più il pubblico; da quel momento la Grande Scène diventa teatro di una festa, a base di fiati balcanici e ritornelli perfetti.
Da una festa corale alla musica perfetta per un incontro a due: alla Scène de la Cascade ci sono infatti i Roxy Music di Sua Maestà Brian Ferry. La sua voce vellutata, i ritmi con più di un debito verso il soul più avvolgente e i fiati ammiccanti fanno infatti pensare che la crisi demografica occidentale degli ultimi anni sia anche dovuta al fatto che non si fa più musica di questo genere. A parte i pensieri sporchi, il concerto è veramente ottimo, con dimostrazioni di classe e una capacità di colpire invidiabile per un gruppo di “vecchietti”.
Prima della fine però bisogna spostarsi di nuovo al palco principale, per godersi da una buona posizione il tanto atteso show degli Arcade Fire, di nuovo al Rock En Seine dopo il trionfale (ed epifanico, per chi scrive) concerto del 2007. Il primo pezzo è Ready To Start, e i canadesi lo sono davvero: il loro suono è infatti unico ed inconfondibile, un mix di epicità e gusto pop che molti cercano di imitare senza riuscirci. Dal vivo questi due elementi trovano sfogo in modo ancor più diretto ed efficace (e stiamo parlando di canzoni che già su disco sono eccezionali) e ogni brano in scaletta non fa che confermare questa asserzione, da Keep The Car Running a Neighborhood #2 (Laika), da No Cars Go a Modern Man. Dopo circa mezz’ora di concerto (all’altezza di Ocean Of Noise, con anche Beirut sul palco) si alza però un vento improvviso: all’inizio nessuno sembra curarsene, a parte forse chi era stato all’Heineken Jammin’ Festival nel 2007, ma quando arriva la pioggia, pochi minuti dopo, e quando questa pioggia inizia a cadere trasversalmente sul palco dando problemi tecnici non indifferenti (che non riescono comunque a rovinare la maestosità di Intervention), sono gli stessi Arcade Fire a preoccuparsi e a lasciare il palco per non restare fulminati. Il temporale finisce poco dopo, ma la strumentazione è quasi del tutto inservibile; per fortuna William Butler e compagni riescono a fare di necessità virtù, inventandosi una Wake Up acustica di una bellezza quasi indescrivibile, cantata dal pubblico fino a perdere la voce. Un gran finale, a suo modo. Ma si sa, la nuvoletta del rock è sempre in agguato, come quella dell’impiegato.