(Foto di Francesca Pontiggia)
Il sabato al Rock En Seine è la giornata più attesa: è infatti la prima ad andare sold out, almeno due settimane prima del festival. I nomi in scaletta sono infatti più che sfiziosi, con sovrapposizioni tra concerti che spingono a fare scelte abbastanza dolorose o quantomeno non a cuor leggero. Il pomeriggio inizia, dopo il solito acquazzone, in maniera abbastanza soft, con il breve set di K’naan sulla Grande Scène. La sua miscela di reggae, hip hop e pop (con qualche spruzzata di musica africana, date le sue origini somale) non è particolarmente innovativa né coinvolgente; tra una citazione di Bob Marley e qualche sermone sulla self-consciousness si arriva alla chiusura del concerto col singolone Wavin’ Flag, colonna sonora dei mondiali di calcio (anche se preferiamo Waka Waka), che scalda il pubblico e fa spuntare anche qualche vuvuzela. Dopo di lui è il turno degli Stereophonics, sicuramente più a loro agio ad un festival come il Rock En Seine. I gallesi fanno valere tutta la loro esperienza, con un concerto ben suonato e gradevole, adattissimo per un tardo pomeriggio con qualche raggio di sole. La scaletta alterna brani dell’ultimo album, Keep Calm And Carry On, alle hit che negli ultimi dieci anni hanno consentito alla band di crearsi un buon seguito, in particolare Dakota, scelta per il gran finale. Dopo il cambio palco tocca poi a Paolo Nutini, di cui seguo solo le prime 3-4 canzoni, con sensazioni assolutamente positive; il suo concerto è infatti una bella festa, con i fiati che assumono un ruolo sempre più importante nel suono delle sue canzoni, facendo da contrappunto alla sua voce, particolare e dalle mille sfumature. Perché quindi lo abbandono così presto? Perché alla Scéne de la Cascade c’è Jónsi ed è un’occasione da non perdere. Il cantante dei Sigur Rós è obbligato a improvvisare un set acustico assieme alla sua band, a causa del mancato arrivo della strumentazione elettronica dal Portogallo, sede della precedente data del tour. È quasi meglio così: la voce dell’islandese riesce a librarsi ugualmente verso vette incredibili, in 9 composizioni elaborate ma che in questa veste ritrovano lo spirito folk alla loro base. Mai come in questo caso si può parlare di magia della musica, nella nudità di sentimenti di canzoni come Kolniður, Boy Lilikoi o Hengilàs, posta in chiusura di set, ci si può specchiare, trovandoci una gamma di sensazioni che vanno dall’allegria più spensierata alla malinconia. Cambio di palco, totale cambio di prospettiva musicale: alla Grande Scène ci sono infatti i Queens Of The Stone Age, che sono tutto tranne che intimisti. Ciò non toglie che facciano un ottimo concerto, penalizzato un po’ dalle canzoni degli ultimi due dischi, di livello ben inferiore rispetto a quelle dei primi tre. La partenza è infatti fantastica, con Feel Good Hit Of The Summer e The Lost Art Of Keeping A Secret a rivelare un Josh Homme in perfetta forma; poi si perde un po’ di fluidità con l’esecuzioni di brani più recenti, non suonati male ma inferiori per scrittura, come ad esempio Sick, Sick, Sick o Burn The Witch, inframezzati da altre perle del passato, come Monsters In The Parasol e I Think I Lost My Headache. Il terzetto conclusivo è però eccezionale, una sottolineatura della grandezza dei Queens Of The Stone Age e della loro importanza nell’hard rock dello scorso decennio: sfido chiunque a potersi permettere di suonare una dietro l’altra tre canzoni enormi come Go With The Flow, No One Knows e A Song For The Dead. In special modo l’ultima diventa una dimostrazione di potenza impressionante, con cambi di ritmo e accelerazioni clamorose. Il tour de force (senza soluzione di continuità, come avrebbe detto il compianto Adriano De Zan) prosegue con un altro cambio di atmosfera abbastanza radicale: ci sono infatti gli Lcd Soundsystem impegnati in quello che potrebbe essere uno dei loro ultimi concerti, se l’annuncio fatto da James Murphy qualche mese fa avrà realmente seguito. 10 brani, un best of della band. Sfilano infatti Drunk Girls, Daft Punk Is Playing At My House, All My Friends, Tribulations, tutte canzoni che hanno segnato in modo indelebile gli ultimi anni sui dancefloor alternativi. A essere sinceri in questa occasione James e compagni non sono così coinvolgenti, forse perché assisto al concerto da abbastanza lontano e non nella calca sotto il palco, o forse perché anche per me l’età inizia a farsi sentire; resta il fatto che solo a tratti mi viene voglia di ballare. Concerto quindi apprezzabile, ma nulla più, riscattato in parte dalla lunga coda che va a unire Yeah e New York I Love You, But You’re Bringing Me Down. A questo punto sul palco principale è già iniziato il concerto dei Massive Attack e io faccio una scelta che potrebbe rendermi abbastanza impopolare tra molti lettori (dopo che ha avuto lo stesso effetto sui miei compagni di viaggio, che mi hanno infatti abbandonato al mio destino): rinuncio al loro set stroboscopico ed elegantemente elettronico per seguire il mio vecchio spirito punk ed andare a rendere onore a Jello Biafra, pronto ad esibirsi sulla Scène de l’Industrie, la più piccola del festival, solitamente riservata ad artisti francesi. Jello, accompagnato dalla Guantanamo School Of Medicine, non mi fa avere rimpianti di alcun tipo: si presenta sul palco con un camice da medico insanguinato, che poi toglie mostrando una camicia a stelle e strisce, rovesciate però, e per un’ora guida l’assalto sonoro della sua band, improvvisando comizi contro Obama, Sarkozy e compagnia tra un brano e l’altro. Lui ha molti chili in più rispetto agli anni ’80, però la sua rabbia è la stessa, così come le sue capacità vocali e di frontman. Buona parte del concerto è dedicata alle canzoni contenute sull’ultimo disco (colpiscono soprattutto Panicland e Electronic Plantation con i loro riff assolutamente indovinati) corredate di volta in volta da spiegazioni e proclami più che condivisibili, con in più un paio di nuovi brani e, naturalmente, per la gioia di tutti, qualche pezzo dei Dead Kennedys. Quando parte Holiday In Cambodia il pit si trasforma in una specie di bolgia, così come quando nel finale si succedono California Uber Alles, Too Drunk To Fuck e Let’s Lynch The Landlord, canzoni con cui si deve pogare almeno una volta nella vita. Dopo la fatica accumulata grazie a Jello e ai suoi studenti di medicina, i 2 Many DJ’s diventano un momento per rilassarmi, anche perché il loro set è praticamente uguale da almeno 5 anni a questa parte. I due belgi sono furbissimi e hanno capito da tempo cosa vuole la gente: giustamente si comportano di conseguenza, creando un dj-set che richiede ben pochi sforzi da parte loro, visto che è una semplice somma di remix di brani ultra-celebri riletti secondo il loro classico modus operandi. Si passa così dagli Ac/Dc a un omaggio agli Lcd Soundsystem, dagli eroi locali Phoenix alla chiusura ossimorica con Love Will Tear Us Apart ed una pioggia festosa di coriandoli. La seconda giornata arriva così al termine, nell’attesa degli Arcade Fire il giorno dopo…