L’uscita di John Lombardo non crea alcun contraccolpo nella musica dei 10.000 Maniacs, fatta eccezione per gli ultimi residui post-punk presenti in The Wishing Chair, completamente abbandonati nell’amalgama sonoro di In my tribe. Lo slittamento è a favore di una musica delle radici che rielabora la tradizione americana, incluse alcune lievissime influenze tex-mex, all’interno di una cornice pop più solida. L’esperienza di Peter Asher, produttore che aveva lavorato con alcuni dei maggiori interpreti della musica popolare statunitense e britannica, esalta la voce di Natalie Merchant, lasciando sullo sfondo il contributo di Dennis Drew, Steve Gustafson e Jerry Augustyniak. Nel solco di un alternative rock che esce dal contesto dei college, In my tribe si inserisce a pieno diritto in quella mutazione fine decennio del rock americano pronto a scalare le classifiche e che includeva anche il progressivo cambiamento dei R.E.M. alla vigilia della pubblicazione di Document.
In my tribe esce il 27 luglio del 1987 e la scelta di veicolare il nuovo corso della band, viene affidata a Peace Train, cover da un brano di Cat Stevens del 1971, contenuto in Teaser and the Firecat, forse la traccia più prodotta, in termini anche negativi, dell’intero In my Tribe.
Al brano è associata una controversia sulle posizioni di Stevens, Yusuf Islam già da dieci anni, e al supposto sostegno nei confronti della fatwa emessa contro Salman Rushide dall’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Al netto dei palleggi successivi tra stampa e Yusuf, per definire in che modo e se l’artista cresciuto in Inghilterra si fosse effettivamente espresso rispetto all’accusa di blasfemia dei Versi Satanici, i 10.000 Maniacs decidono, in accordo con la Elektra, di rimuovere la traccia dalle edizioni statunitensi dell’album, sopravvissuta solo nelle stampe europee.
Le note a margine della vicenda vengono perfezionate negli anni successivi e sostanzialmente si legano ad una decisione mai recriminata, ma per la qualità del brano stesso, non molto amato dai Maniacs, per impostazioni sonore e produttive e sostanzialmente poco rappresentativo del nuovo sound della band.
Ma c’è un’effettiva differenza tra le dichiarazioni di Dennis Drew, concesse a The Star il 19 settembre del 2014 e quelle pubblicate il primo luglio del 1987 sul Jamestown Post Journal, dove la stessa Merchant ammette l’approccio più radio friendly dell’album e il fatto che Peace Train fosse “il modo migliore per introdurre la band ad un nuovo pubblico“.
Nello stesso articolo, si fa cenno al videoclip ancora da girare. La Merchant parla delle imminenti location a Jamestown, in particolare in luoghi come l’Allegany State Park e il Kinzua Dam. In realtà il video sarà filmato nel Connecticut, ma uscirà presto dalla heavy rotation, per poi scomparire in tempi più recenti anche dal profilo Youtube ufficiale della stessa Natalie Merchant.
Disponibile in forma trapelata da un broadcasting di VH1, il video di Peace Train tiene al centro la performance della Merchant, collocata su una zattera insieme alla band e che gioca a fare il pifferaio di Hamelin per una folla crescente di ragazzini che provengono dalla campagna circostante al principale corso d’acqua. La fisicità della cantante americana, fondamentale nelle performance dal vivo e nella clip di Scorpio Rising, singolo del precedente album, mantiene centralità ribelle nella lotta indomita con i capelli e con un incedere tra punk e tradizione country-western, che nell’urgenza della danza è assimilabile alla fulminea presenza di Maria MacKee dei Lone Justice nei live tra il 1985 e il 1986.
Questo contrasto, quasi disturbante, tra la malia di Natalie, la qualità ecumenica delle liriche di Stevens, cura pacifista per i mali del paese, e una turba di adolescenti sorpresi e atterriti dal passaggio della buona novella, fanno di questo piccolo video rimosso, un prodromo interessante della qualità stridente percepita nelle clip successive della band, sempre sospese tra apparente disimpegno pop e la feroce, amara e malinconica introspezione sollecitata dal songwriting di Natalie Merchant.
Qualche anno dopo aver formato la fake-band heavy metal dei Bad News ed aver girato il videoclip di Fiesta per i Pogues, il comico e regista Adrian Edmondson, firma il video per il secondo singolo di In my Tribe. Like The Weather risente della progettata anarchia nell’organizzazione del set, tipica dei video di Edmondson e se appare diverso dalle parodie guascone di Prime Mover per gli Zodiac Mindwarp e di Bohemian Rapsody, per il già citato progetto Bad News, è identica l’energia che investe il set di improvvise trasformazioni a vista, sfondamenti della quarta parete, innesti tra elettronica e una qualità ancora fisica del videomaking. Oltre a questo, l’ambiente casalingo in cui si muove Natalie, è infestato dall’astrattismo di linee, colori e forme desunte dall’anti-naturalismo musicale di Vassili Kandinskij. Un’assenza di logica rappresentativa che si connette maggiormente allo spirito cromatico dei suoni e allo spleen delle liriche. Persino i vestiti indossati da Natalie, la sua danza nevrotica e ribelle, disegnano una relazione mutevole tra geometria e colori. Un tentativo che Edmondson, tra l’altro, ripeterà con il video di Hourglass, dove gli Squeeze vengono calati nelle aberrazioni spazio temporali di Magritte e Dalì. Se quest’ultimo gli valse il premio come miglior video agli MTV Music Video Awards, Like the weather ci sembra molto più riuscito, per l’equilibrio positivamente vivo e instabile tra l’azione di Natalie e la casa che non riesce a contenere il suo umore cangiante. Mentre Hourglass è un esempio più didascalico, gli innesti e i riferimenti alla storia dell’arte figurativa non inghiottono il video dei Maniacs, ma al contrario rilanciano continuamente la gerarchia tra performer e spazio, facendo esplodere il secondo e lasciando fuoriuscire il liquido dall’acquario televisivo.
And instead of love and the feel of warmth
You’ve given him these cuts and sores
That don’t heal with time or with age
Uno degli esempi più forti del contrasto tra solarità dell’ordito pop e il lavoro di Natalie Merchant sulle liriche è proprio What’s the Matter here? Il terzo e ultimo singolo estratto da In my tribe è una dolorosa anti-elegia sull’abuso infantile, che l’artista di Jamestown scrive ispirandosi alle vicende di una famiglia del suo stesso quartiere, intraviste, supposte e in parte immaginate. Una genesi molto simile a quella di Luka, il brano pubblicato lo stesso anno da Suzanne Vega e dedicato ad un bambino vittima di abusi.
Scritta insieme a Robert Buck, la canzone viene sviluppata in autonomia per quanto riguarda il contenuto del testo, rimasto per lo più segreto fino al giorno delle registrazioni. Un procedimento che in qualche modo non turba la qualità aperta e possibile dell’impianto sonoro.
Il videoclip viene affidato a Matt Mahurin, fotografo dal grande talento, che a partire dalla fine degli anni ottanta, dirige un numero notevole di video musicali. Con un segno distintivo tra street photography e videoritratto che caratterizza i suoi video più belli realizzati per artisti come Metallica, Lou Reed, Cowboy Junkies, Peter Gabriel, sviluppa un’apparente elegia dell’infanzia. Apparente perché l’utilizzo esasperato dello slow motion, contiene il gesto e la dimensione del gioco entro un’area che potrebbe dischiudere le forme stesse della violenza. Da una parte il comune impatto tra corpi che giocano e vivono l’energia migliore dell’infanzia, dall’altra una serie di segni di collocazione ambigua, tra cui la formidabile sovrapposizione tra il fascio di stelle filanti tenuto in mano da una bambina, precedentemente utilizzato come un oggetto di punizione da Natalie Merchant, durante uno dei suoi splendidi movimenti di danza. Tutta la violenza più esplicita è in effetti concentrata nei gesti della performer. La cintura, la sedia della punizione, investono gli oggetti quotidiani di un senso terribile, mentre Natalie chiude gli occhi con le proprie mani e non osa denunciare. Tutto il video allora è sospeso sul crinale del non detto, sull’ambiguità di oggetti, movimenti e segni dalla collocazione incerta. Se c’è una traccia di felicità, questa è nel trucco del tempo visivo, raggelato nello spazio impossibile e negato del ricordo.