mercoledì, Dicembre 25, 2024

A Common Day Was Born: Il limine alieno degli Ant Lion

Cosa ci avvicina maggiormente alla musica? La nozione di performatività o quel relitto di “musicologia” che è sopravvissuto nella critica musicale, anche quella più scarsa e divulgativa di cui facciamo tutti parte? La prima ci consente ancora di focalizzare l’attenzione su una larga varietà di fenomeni, a partire da quel tipo di attività espressive che mettono in gioco la corporeità, fino a dinamiche più squisitamente rituali che coinvolgono l’utilizzo enunciativo del linguaggio, l’attività politica o quello che ne è rimasto ed infine l’uso del corpo privato nelle attività quotidiane. La musica allora emerge nuovamente come parte di un processo sociale e culturale, dove la comprensione diventa palindroma, perché da questi stessi processi risaliamo ai suoni e dai suoni possiamo immergerci nella complessità dei processi.

Più dell’analisi strumentale dettagliata, o peggio ancora dell’elenco di fenomeni brano dopo brano, descritti con grande impotenza da parte di chi recensisce, l’ascoltatore, anche quello critico, dovrebbe porre  maggiore attenzione alla formazione di identità complesse e a quella collisione che si verifica quando una certa esperienza sonora incontra la propria percezione di corpo, spazio, identità.

Se per esempio pensassimo alla scena Newyorchese tra la fine dei settanta e i primi ottanta con l’etichetta generica del “punk”, non terremmo conto del background performativo di buona parte dei suoi attori.
Pat Place (James Chance and the Contortions, Bush Tetras) veniva da un background di tipo visuale; Arto Lindsay e Robin Crutchfield (DNA) così come Mark Cunningham (Mars) provenivano dall’esperienza nel teatro sperimentale e nelle arti performative; Lydia Lunch era una poetessa che già dalla militanza con i Teenage Jesus tramutava la parola in azione performativa ed emozionale, un vero e proprio duello con-tro il pubblico; Alan Vega portava all’estremo la violenza di Iggy Pop, utilizzando il proprio corpo come strumento.

La città e l’esperienza urbana, tra i relitti della suburbia e un metissage di culture, diventa un non luogo di transito, dove far confluire frammenti africani in aperto contrasto con le posture New Wave, saldamente ancorate alla definizione identitaria del vecchio continente. Non più il flaneur, ma la figura nient’affatto romantica del fugueur, dove allo stupore nel rapporto libero con il tessuto urbano, si sostituisce la follia, la frammentazione e la schizofrenia di fronte ai codici di una realtà ininterpretabile.

L’esperienza mutante di James Chance è paradigmatica in questo senso, e il suo rapporto con la musica nera, tra funk, hard bop jazz e blues rurale, è la testimonianza di un processo in divenire che mette il proprio corpo e la propria percezione costantemente in discussione e ai margini.

Si è parlato recentemente e brevemente del ruolo di Debbie Harry per accennare a quelle suggestioni che allontanano il corpo dall’ambito organico nella connessione con un “limine alieno” e inorganico. Dopo Alien e prima di Videodrome, l’incontro tra l’ex punk lolita del CBGB e Giger testimonia un’attitudine radicale entro il territorio apparentemente innocuo e pop(ular) di una hit single, ancora capace di raccontare mutazioni socio-culturali importanti. È una dimensione aurorale che sembra lontanissima, nel dialogo ancora proficuo tra creatività e industria, ma assolutamente necessaria, sopratutto in un contesto come quello attuale che ha perso la consapevolezza, anche traumatica, dell’innesto nel rapporto con i dispositivi di massa, usati ormai come una clava, tutti contro tutti.

Una lunga introduzione per raccontare lo straordinario debutto degli Ant Lion, proprio perché completamente fuori dall’ordinario sentire, attraverso il recupero di alcune suggestioni culturali che ci sembrano al centro di “A Common Day Was Born“, sin dall’artwork che occupa la copertina del CD: una Nasica disegnata da Stefano Santoni, il cui volto coincide con quello di una maschera rituale. La scimmia sembra trionfare sulla metropoli che si intravede al posto dello sfondo, come ci ha raccontato l’autore, ma la sua relazione con il mondo civilizzato rimane oscura e irrisolta, anche nella breve narrazione che prosegue con i due disegni successivi contenuti all’interno del booklet. Il primate dall’intonazione nasale sorveglia quello che rimane del mondo conosciuto durante una nuova aurora dove potrebbe dominare l’istinto.

L’ensemble toscano proviene da esperienze eterogenee e pone al centro la voce di Isobel Blank, cantautrice, ma anche artista visuale e performativa abituata a mettere in gioco il proprio corpo,  in una complessa relazione tra gesto, quotidianità e una nuova codificazione identitaria. Lo stesso rapporto sofferto che emerge dai testi di “A Common Day Was Born” dove la relazione corpo/natura, corpo/ambiente è un continuo districarsi nella gabbia delle relazioni sociali, alla ricerca di una purezza aurorale.
Istintive e viscerali, le liriche della Blank incontrano i cluster chitarristici di Simone Lanari (già con i Walden Waltz), le poliritmie di Alberto Tirabosco (Punk Lobotomy) e l’attenta produzione artistica di Stefano Santoni (Kiddycar e Sycamore Age) che con gli Ant Lion suona il basso.

Rispetto a quello che dicevamo sulla capacità di una scena come quella Newyorchese di assumere e in qualche modo precorrere la morfologia del tessuto urbano deflagrato in mille direzioni, Santoni/Blank/Lanari/Tirabosco  sembrano riferirsi a quelle possibilità in modo vivo ed eretico, cercando nuovamente di interrogarsi sui processi che mettono in relazione città e individuo e consegnandoci dieci tracce di musica certamente metropolitana, ma che anela a fuggire altrove con quella visione assolutamente contemporanea che contrappone città ormai “brutte” e defunzionalizzate, ai luoghi della campagna che ancora resistono. 
Il suono degli Ant Lion è in questo senso ricco di innesti e alla schizofrenia di un’identità metamorfica, contrappone spesso punti di fuga notevoli verso il Jazz visionario di Sun-Ra e un riferimento sempre presente alla musica orientale che trasforma il clangore metallico dell’esperienza urbana in una dimensione rituale e dall’eco liturgica.

La musica degli Ant Lion è in aperto contrasto con l’ipertrofia musicale dei nativi digitali, sin troppo preoccupati di raccontare la vita non oltre i confini di una camera, di un cellulare o peggio ancora di un tweet, musiche e (iper)testi degli ultimi dieci anni di rock “indipendente”, nient’affatto libero dai cliché, proprio perché su quelli imposta la propria cornice di riferimento, salvo citare Derrida ex abrupto, come parte di una digestione dove tutto è uguale a se stesso. Al contrario, quello di Ant Lion è davvero suono della differenza, come “evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità: Si decostruisce” a contatto con numerose esperienze sonore di cui conserva tracce e radici, procedendo oltre il velo di una realtà imposta, con i mezzi di una musica fratta e ricca di registri sonoro-narrativi in continua mutazione.

In questo senso  “l’inattualità” sonora dell’ensemble toscano è attualissima nel ricordarci la frammentarietà identitaria in corso, mettendo da parte il prodotto sonoro delle tecnologie digitali e recuperando una dimensione ancora elettrica ed analogica, non solo per ricordarci che su quello strato si reggono ancora l’era e le creatività contemporanee,  ma sopratutto per osservare una dimensione tragicamente umana nel rapporto tra gesto e strumento, istinto e musica, libertà e scrittura, città e individuo.

Dovessimo per forza e controvoglia offrire un aggancio per rompere l’incanto e il mistero, ci verrebbe forse in mente il catalogo Skin Graft degli anni novanta: Gorge Trio, Colossamite, Yona-Kit.  Ecco ci teniamo a dire che gli Ant Lion non somigliano a nessun’altra cosa, per le capacità combinatorie di cui parlavamo; il riferimento a quel contesto non viene considerato per questioni didascaliche, ma attitudinali. 

Cosa ci avvicina allora alla musica degli Ant Lion? Un disperato bisogno di furia e verità, musica da ballare ormai posseduti, sulle macerie dei grandi complessi urbani. 

 

L’album di Ant Lion esce su etichetta Ibexhouse con distribuzione Audioglobe per l’Italia, ma anche in Giappone (dove sapranno sicuramente apprezzare con maggiore curiosità e attenzione) su OOO Sound con distribuzione Tower Records.

Trovate gli Ant Lion su Facebook da questa parte

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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