Guido Minisky e Hervé Carvalho mettono in piedi il progetto Acid Arab con lo scopo di documentare, attraverso una specie di travelogue sonoro, il suono del medio oriente per combinarlo con toni e modi della Techno, nell’accezione più larga del termine. La forza di una tradizione vitale e correlata, alla radice, al concetto di trance music, spinge il duo ad affrontare un viaggio in Tunisia insieme al fondatore della Versatile Records, DJ Gilb’R. Di ritorno nella natia Parigi realizzano due Ep compilativi su Versatile il cui contenuto non compare nella raccolta oggetto di questa recensione, arricchita da altri interventi, ad eccezione di quello firmato da Omar Souleyman, già pubblicato nelle precedenti uscite.
Minisky e Carvalho si avvicinano quindi alla musica mediorientale cercando di interpretarne i codici, la complessa struttura ritmica che, come hanno dichiarato “spinge chi la danza ad una forma di trance molto simile a quella di chi balla l’acid house“. L’incorporamento è quindi il segreto, non certo l’addizione di suoni orientali al beat occidentale, ma una sorta di scambio reciproco che sfrutti le similarità; niente quindi si inventa ma tutto può essere ri-vissuto, a latitudini distanti, attraverso uno sguardo trasparente e sincretico. Acid Arab si appoggia ad un concetto unitario, come quello del sistema modale Persiano, il Dastgāh, melodia sulla quale un performer compone uno sviluppo estemporaneo e improvvisativo; il Dastgāh dall’Iran ha praticamente dato una forma alla musica del Pakistan, del Nordafrica e della regione Caucasica, e serve ad Acid Arab come percorso filologico per non perdere di vista un racconto sonoro che altrimenti avrebbe potuto essere discontinuo e del tutto casuale.
Tra groove ipnotici, breakbeat a 120bpm, scelte sorprendenti e selvagge come quella di orientare il suono verso la house fine ottanta, la “collection” è un potente viaggio nei suoni e nei luoghi di una world music per niente retorica, che conserva il suo aspetto mistico e allo stesso tempo tribale, rispettando i confini ma allo stesso tempo contaminando visioni e tracce residuali. In questo contesto difficile distinguere il lavoro strettamente etnomusicale dalla re-invenzione sintetica di voci, melodie, strumenti tipici, quello che conta è come l’atmosfera viva, di una musica catturata o immaginata in una dimensione performativa, faccia parte del sound di Acid Arab da un punto di vista concettuale, chi se ne frega se i samples sono registrati con un nagra, in forma documentaristica, o ricreati in studio con quella stessa visione ben presente, perchè quello che conta è la qualità del “gesto”.
È quindi possibile sentire sample veraci dalla musica Algerina Rai, dalla tradizione Egiziana Mawwal in un contesto sonoro che mette insieme la club music occidentale, l’elettronica anni ’80, e l’evoluzione dell’house music dalle origini fino ad oggi. Acid Arab è un progetto coinvolgente che apre una prospettiva di novità in un panorama come quello vastissimo della club music, ormai specializzatissimo ma allo stesso tempo fortemente autoreferenziale; qui si esce dallo spazio endogeno del club per poi tornarci arricchiti da un’esperienza che racconta le strade, i colori, il ritmo e il caos di una tradizione antichissima, tra misticismo e perdita del se.
Insomma Minisky e Carvalho non sono i Dissidenten, per loro “Mixare più tradizioni potrebbe suggerire una separazione”, hanno detto “come se si dovesse operare secondo un processo binario, occidente contro medio oriente. Onestamente volevamo andare oltre questa opposizione senza incollare i suoni orientali su un’architettura sonora occidentale fatta di beats e groove. Abbiamo preferito incorporare le due culture senza pensare di reinventare la musica orientale o con la presunzione, che ne so, di lanciare la dance music mediorientale; volevamo solamente essere parte di essa e contribuire a questa enorme tradizione “trance”, viva da ormai diverse centinaia di anni”
Difficile allora scegliere una traccia tra le tredici di Acid Arab, perchè sono tutte di enorme valore e allo stesso tempo di grande potenza; basterà citare Etienne Jaumet che con “The Cheikh Arrives” mette insieme John Carpenter e la musica Persiana, “Shift Al Mani” di Omar Souleyman che trova un’intersezione incredibile tra lounge, acid house e la Syria, Professor Genius, una delle poche voci non francofone presenti nella raccolta, con la forma più ambient e “Dervisches” di “Couronne”.
Chissà che l’ascolto della raccolta non indichi una via diversa da quella psicotropa legata alle abitudini di fruizione della trance occidentale, privilegiando la ricerca di un’unità motrice, psichica, e affettiva che orienti alla perdita della centralità dell’io durante la danza; come per i Derviches, affidarsi quindi al tempo parallelo del ritmo, abbandonare l’abitudine al pensiero e sostituirla con la forza dell’intuizione, in una frase: “lasciarsi andare” a questo sorprendente viaggio del corpo e dell’anima.