Chissà se Stefania Pedretti e Chiara Guidi si conoscono, per quanto i loro percorsi siano distanti, l’estremismo vocale che abitano sembra condividere oltre alla dimensione performativa, l’idea di un fonema che diventa “cosa” oppure pietra pre-semantica da scagliare, la Guidi ce lo aveva raccontato durante il tour di Ingiuria insieme a Blixa Bargeld, Teho Teardo e Alexander Balanescu, mentre la Pedretti, che ancora non abbiamo avuto la fortuna di incontrare di persona, lo ha dichiarato a più riprese quanto l’istinto giochi un ruolo fondamentale come prassi originaria, forma pre-linguistica che ha modellato la sua vocalità sul lamento, l’urlo, la bestialità e l’emotività aptica, quest’ultima avvicinata attraverso l’azzeramento del senso di cui ci fidiamo maggiormente come quello della visione e che è destinato ad ingannarci “en abyme”, per inabissarsi al contrario nell’esperienza della cecità, concretizzando l’essenza materica del suono. Non ci riferiamo solo alle occasioni in cui la Pedretti si è trovata a suonare bendata, ma al modo in cui ?Alos, più del progetto condiviso con Bruno Dorella oppure del breve passaggio con le Allum, da cui in qualche modo è nata questa esperienza in solitaria, si configuri come un vero e proprio brodo sonico primordiale scaturito dal suo rapporto con la vocalità, come se fosse un glaucoma che vive un suo ciclo autonomo.
Rispetto al maleficio rituale di “Era”, pubblicato nel 2012 su etichetta Tarzan, “Matrice” sembra fissarsi ancora più brutalmente alla terra, in una direzione matrilineare che rileva nel passaggio la nascita e la morte di tutte le forme di vita per partenogenesi; il riferimento a “Ecate“, brano che apre l’album della Pedretti è preciso, non solo per le origini del mito greco che individuano nella divinità psicopompa un agente del transito dalla luce alle tenebre senza soluzione di continuità, ma sopratutto per tutti quei principi creativi ricondotti ad un soggetto bi-sessuato, oltre i generi, in grado di sintetizzarne tutte le possibilità.
In questo senso, “Matrice”, ovvero la natura, è un organismo complesso e brutale, che registra tutte le fasi della vita creaturale, dall’amplesso alla genesi, fino alla putrescenza, in un attacco sonoro che mantiene solo alcuni punti di contatto con gli altri progetti che la Pedretti condivide; dell’estetica Doom, Gothic, Darkwave rimangono solo alcuni relitti ad interagire con il setting essenziale della performer: voce, chitarra, violoncello e oggetti; e questi sono il drumming di Giovanni Todisco, l’elettronica di Necro Deathmort e quella di Mai Mai Mai. Se si esclude “Luce/Tenebre“, dove una forma doom disossata imposta l’incedere, mentre la voce di ?Alos smembra quello che conosciamo del growling in un lamento ancestrale fuso con i suoni della natura (gli oggetti, il violoncello pizzicato), tutto il resto tende alla decomposizione del sostegno puramente strumentale per privilegiare una saturazione rumorista e sospesa tra organico e inorganico, industriale e animale, che mantiene casomai una dimensione ipnotica (il dub dilatatissimo della title track) per poi perdersi nei feedback, nelle rifrazioni, nel rantolo delle voci, nell’orgasmo gutturale, nell’urlo estatico, nella spirale di un suono che sembra più interessato a documentare l’attività brulicante della vita, incluse le forme più respingenti, rispetto a quella autoritaria della narrazione.
Ecco perché la parola può diventare solo “fonema” metamorfico, qualcosa che vada oltre la forma comunque vitale e antiautoritaria del linguaggio gergale e che si collochi in una posizione pre-soggettiva, quella di un caos in movimento.
Ancora una volta il lavoro sul femminile della Pedretti, non ha proprio niente da spartire con il femminismo d’accatto delle nostre cantantesse, ma è una ricerca incessante sull’abiezione, sulla maternità e il suo rovescio, sulle divinità ctonie, e proprio perché si serve di strategie che ribaltano la sedimentazione storica del mito, procede verso la costruzione del mostruoso-femminile (per come ne parlava Barbara Creed o per come lo fotografava Cindy Sherman) slegato dal concetto di castrazione, ovvero da una percezione narrativamente orientata dal racconto maschile, scegliendo invece la forza creativo-distruttiva insita in questa rappresentazione mostruosa, necessaria e indifferente come la natura.
Tutte quelle forme rappresentative negate, elise e spesso soppresse, emergono quindi nella documentazione di una corporeità feconda e ribollente che mette in primo piano attraverso la voce nuda fenomeni in movimento come la secrezione, il gorgoglio, il rantolo.
La voce della Pedretti improvvisamente si può toccare, come una ferita ai cui estremi ci sono i generi (musicali, sessuali, narrativi) prima che il linguaggio li definisse.