Damon McMahon, in arte Amen Dunes, torna con un nuovo LP a tre anni del precedente Through Donkey Jaw sempre in corsa con la Sacred Bones. Love è il titolo dell’ultimo lavoro, undici pezzi nati sotto una stella accidiosa, la stessa che ha snocciolato oltre diciotto mesi di realizzazione, fra scrittura, registrazione e produzione. Una gestazione lunga che ha visto la partecipazione di amici di vecchia data fra cui Jordi Wheeler (chitarra e pianoforte) e Parker Kindred (batteria).
Pur scavando abissi con il precedente lavoro, Love si presenta in veste vocale e strumentale, volutamente trascurato nelle finiture estetiche dove l’effetto che spicca fra tutti e la pesante eco e il riverbero del cantato. I cinquanta minuti dell’album riversano una miscela di soft rock astrale, ballate lunari e un asciutto country folk. Un crocicchio in cui convogliano spunti poco definiti e ammantati da una nebulosa lo-fi che rende Love un album sfuggente e in perenne movimento. Un lavoro astratto che sembra cercare disperatamente un corpo o una forma entro cui prendere domicilio ma, al contrario, resto sospeso e incastrato in un romanticismo senza fine, tenerissimo e lanuginoso. McMahon sfoggia i vari aspetti del suo Love; dalle ripetizioni cantilenanti (Lonely Richard) agli ululati duettati dal piano e voce (Sixteen), dall’insistenza corale alla Leonard Cohen (Lilac In Hand) alla storpiatura garage lo-fi che richiama i primissimi lavori contenuti in Dia (I Can’t Dig It). Con elegante circolarità, la title track, Love, chiude le sorti dell’album, affidando alla morbidezza del pianoforte il commiato di McMahon. Alquanto distante dal convincere pienamente, l’album è un più che gradito passaggio nella galleria di McMahon, meno penetrante rispetto all’immediato predecessore, ma ugualmente frutto di una composizione elegante e ben calibrata nei tempi.