lunedì, Dicembre 23, 2024

Amore un cazzo di Paolo Pietrangeli: il videoclip di Chiara Rigione, l’intervista

Amore un cazzo, sguardo agrodolce e ludico, ma anche capriccio amoroso in forma di danza. Il nuovo singolo di Paolo Pietrangeli che veicola il suo nuovo e ultimo album. Lo splendido videoclip è diretto da Chiara Rigione con il supporto della fondazione AAMOD. L'abbiamo intervistata per conoscerne la genesi e i segreti di lavorazione

Amore un cazzo” è il nuovo e ultimo album di Paolo Pietrangeli. Non è un caso che il cantautore e regista romano abbia scelto, a fianco del digitale, il formato 33 giri, l’unico modo per ricondurre l’ascolto ad una questione di “tempo”. E la relazione con il tempo, in questo commiato malinconico che gioca continuamente con l’ironia, evidenzia quella con il desiderio, inteso come sguardo agrodolce sulle proprie origini. Sceglie quindi un lessico amoroso, nel senso ludico ed erotico del termine, a partire dal singolo che promuove l’intero disco, veicolandone il titolo. Tra la dolcezza e l’amarezza, la percezione affettuosa del femminile è fatta di continui slittamenti; conviene ascoltare le liriche con attenzione, per il progressivo cambio di registro, per le parole che si annullano oppure si potenziano a vicenda, come un capriccio amoroso in forma di danza.

Paolo Pietrangeli. Fonte foto: Monferr’Autore ufficio stampa



Il videoclip di “Amore un Cazzo” è stato diretto e montato da Chiara Rigione, giovane e talentuosa regista, già attiva come documentarista e tra i vincitori del Premio Zavattini 2018-2019 con “Domani Chissà, forse“, lavoro che affronta la relazione con la memoria, attraverso le sovrapposizioni e le aporie del tempo.
Per la splendida clip di “Amore un cazzo”, la Rigione si è servita dei materiali messi a disposizione dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, combinati con alcuni filmati dello stesso Pietrangeli, oltre ai frammenti selezionati dalla sua breve, ma intensissima filmografia.
Per chi scrive, il video di “Amore un cazzo” è uno dei più belli del 2020, per il dialogo, anche generazionale, che si instaura entro la cornice, tra la poesia di Pietrangeli e la sensibilità visionaria della Rigione.
Ne abbiamo approfondito alcuni aspetti insieme alla regista, in una dettagliata conversazione che è possibile leggere qui sotto, dopo il videoclip.

Amore Un Cazzo, l’album di Paolo Pietrangeli

L’album di Paolo Pietrangeli è pubblicato su label Bravo Records/Ala Bianca, con distribuzione Warner. E contiene anche un cadeau: nella terza di copertina dell’edizione in Vinile si trova infatti un QR Code che – scansionato con fotocamera dello smartphone – porta all’ascolto in streaming e al download di un concerto di Pietrangeli al Teatro Parioli di Roma nel 1995.

Amore un Cazzo, l’artwork del nuovo album in vinile di Paolo Pietrangeli

Paolo Pietrangeli – Amore un cazzo – Il videoclip di Chiara Rigione

Amore un Cazzo e altre visioni. Lo sguardo di Chiara Rigione, l’intervista

Chiara Rigione in rete

Benvenuta su indie-eye Chiara. Innanzitutto complimenti per il videoclip di “Amore un cazzo” è davvero uno dei lavori più stimolanti di quest’anno. Prima di approfondirne alcuni aspetti ci piacerebbe tu ci raccontassi come è nata la collaborazione con Paolo Pietrangeli.

Ciao e grazie per l’apprezzamento e per quest’intervista, inaspettata quanto gradita. Penso sia importante farsi (o farsi fare) qualche domanda ogni tanto e avere la possibilità di approfondire con te uno dei miei ultimi lavori di certo mi aiuta a comprenderne meglio le motivazioni. La collaborazione con Paolo Pietrangeli è nata grazie alla regista Wilma Labate che, insieme alla Fondazione AAMOD, mi ha proposto di ideare e realizzare il video con la possibilità di servirmi liberamente del materiale d’archivio. In pratica mi ha invitata a nozze.

Come avete discusso insieme i dettagli, Pietrangeli è intervenuto in fase di lavorazione oppure ti ha lasciato libera di lavorare con i materiali?

Ho sentito Paolo tre volte, prima, durante e alla fine del montaggio. Desiderava che il video venisse realizzato da una donna giovane ed era curioso di scoprire come avrei lavorato sul suo testo. Mi ha lasciato assoluta libertà e ne sono stata felice. Il premontaggio gli è subito piaciuto ma mi ha suggerito l’inserimento di qualche immagine più forte, se così si può dire. Nonostante il rischio di incontrare qualche naso storto, se non qualche censura, abbiamo azzardato l’inserimento di qualche fotogramma più esplicito, in due momenti. Si tratta di pochi secondi in cui si vede anche lo stesso Pietrangeli. Penso che il video ne abbia guadagnato.

Il video è stato realizzato con i metodi dello stock e del found footage. Da una parte i materiali di AAMOD, dall’altra alcuni filmati dall’archivio privato dello stesso Pietrangeli, e se non mi sbaglio anche alcuni frammenti dal secondo lungometraggio di Paolo, “I giorni cantati” del 1979, una scelta che non ci sembra affatto casuale anche per lo spirito intergenerazionale che attraversa quel film. Puoi raccontarci come si è svolto il lavoro di ricerca, raccolta e selezione dei materiali?

I materiali sono stati quasi esclusivamente concessi dall’AAMOD, ad eccezione di alcune immagini di un filmato di educazione sessuale degli anni ’70 che ho scelto negli archivi Prelinger e di altre scene che come dicevi sono tratte dal film “I giorni cantati” di Pietrangeli. Per la selezione, avendo familiarità con i materiali dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico con il quale avevo già lavorato, sono andata sul sicuro. Ho scelto solo filmati a colori come prima scrematura. Sapevo poi di voler agire sui contrasti e mostrare immagini che quasi sempre si scontrassero ironicamente con le parole del testo. Inoltre desideravo che Paolo apparisse in qualche modo nel corso della narrazione.

Amore un Cazzo, il videoclip di Paolo Pietrangeli diretto da Chiara Rigione

Ci ha molto colpito il lavoro di montaggio, non solo dal punto di vista ritmico, ma anche nella costruzione di una narrazione stratificata. La sensazione è che tu abbia seguito molti aspetti senza abbracciarne uno in modo esclusivo: certe aritmie della ballata di Pietrangeli, alcuni elementi del testo e un’esplorazione sul gioco delle coppie, ritratto come una danza continua, un girare a vuoto tra desiderio e malinconia. Puoi raccontarci il metodo scelto?

Esatto, ho proprio lavorato per strati, partendo dall’idea di base di mettere il racconto in bocca ad un clown che si rivolge ai bambini. Mi piaceva che le parole della canzone muovessero da un contesto completamente diverso da quello che ci si poteva aspettare, per creare una sorta di cortocircuito. Da lì poi, con lo scorrere della storia, si divaga in altri contesti, dal più scontato del rapporto di coppia, d’amore prima, d’odio e rottura poi, ai giocosi riferimenti culinari e sessuali. Lavorare con l’archivio permette di avere a disposizione un ventaglio quasi infinito di possibilità, tra cui quella di perdere la bussola. Ma devo dire che realizzare questo video non è stato così complesso. Mi sono lasciata trasportare da quello che la melodia, il ritmo e le parole mi evocavano. Quindi il desiderio come dici tu, prima di tutto, e in un secondo momento la malinconia che leggevo nella voce di Paolo e che inevitabilmente è insita nelle immagini d’archivio. L’uso di scene di danza era necessario, perché “Amore un cazzo” è una vera e propria ballata. E a parte i balli di coppia, essere riuscita a trovare nelle pellicole che avevo a disposizione scene come la coreografia di gruppo che segue perfettamente il tempo della canzone è anche stato un colpo di fortuna.

Lo sguardo sul mondo femminile a un certo punto diventa centrale, con una serie di immagini splendide che trasudano erotismo. Ci racconti qualcosa di queste immagini di donne che si susseguono nella seconda metà della clip?

Sono una donna e in un certo senso mi sono sentita chiamata in causa ascoltando le parole della canzone. Tra gli strati narrativi di cui parlavamo prima, ho immaginato che Paolo imbastisse un discorso con le sue donne del passato, belle e giovanissime, ingenue o in alcuni casi provocanti e smorfiose. Anche in questo trovo ci sia una nota fortemente malinconica, ma credo che in un disco di addio alla carriera musicale la malinconia sia inevitabile.

C’è uno split splendido a un certo punto, due ragazzi, sul muro si legge “Arrivederci nel 2011”. Ci racconti qualcosa su quel segmento?

Mi piace molto quella sequenza! Nel gioco di “tira e molla” delle diverse coppie, quella tratta dal film Trevico-Torino… Viaggio nel Fiat-Nam, esordio di Ettore Scola, è di sicuro la più poetica. Quella scena mi ha fatto pensare alla situazione che attraversiamo oggi, in cui il contatto è vietato. Perciò i gesti appena accennati dei due ragazzi che si desiderano e tentano di avvicinarsi ma solo per un attimo, non entrando mai in contatto fino in fondo, mi hanno riportato alla sensazione di isolamento che stiamo vivendo, nelle nostre case e perché no, dentro un’inquadratura: prima larga poi stretta e di nuovo larga. La pellicola è del 1972 e l’affresco che si scopre con quel leggero zoom out, proprio sulle parole della canzone “per riscoprire il quadro, anzi l’arazzo...” si riferisce ad un futuro piuttosto lontano. Un anno, il 2011, che oggi per noi è invece il passato. Questo gioco con i piani temporali mi intrigava molto.

Amore un Cazzo, il videoclip di Paolo Pietrangeli diretto da Chiara Rigione

La tua formazione è tutt’altro che cinematografica, ma ad un certo punto nella tua vita il cinema e in particolare quello del reale, ha assunto una posizione centrale. Il video per Paolo Pietrangeli ci sembra una prosecuzione del lavoro che hai svolto per “Domani chissà, forse”, il tuo film che si è collocato tra i vincitori del Premio Zavattini 2019. In quel caso il riuso creativo di materiali non era così predominante, ma in qualche modo lo spirito era simile, perché partivi da un documentario di Ansano Giannarelli girato nei luoghi del tuo film, a Vallepietra. La memoria e il tempo quindi ci sembrano un aspetto centrale nel tuo lavoro. In “Domani chissà, forse” il tempo emergeva come una crepa, una fessura che consentiva di guardare due strati temporali interagire oppure annullarsi. In “Amore un cazzo” secondo te questo contrasto è ancora presente? Te lo chiediamo perché mette insieme molte cose, dal percorso di Paolo Pietrangeli allo specchio della coppia che attraversa il tempo sociale e quello privato.

La mia formazione è scientifica, ma ormai da 7 anni mi occupo di cinema in modo quasi esclusivo, sia come filmmaker che come operatrice culturale. Il cinema del reale è poi diventato il mio principale interesse negli ultimi 4 anni. Come dicevo anche prima, sono particolarmente affascinata o ossessionata dal discorso relativo al tempo, iniziato con “Domani chissà, forse” e proseguito anche nel mio ultimo lavoro “Orfani del sonno”. Non si tratta di un semplice riesumarsi di antiche memorie, che certamente l’utilizzo dell’archivio mi permette, ma di un discorso che sfocia nella ciclicità del tempo e conduce ad un continuo accavallarsi di presente, passato e futuro. Tutto ciò si avvicina molto al mio personale sentire. Di sicuro anche il videoclip di “Amore un cazzo” non è esente da questa riflessione.

Nello straordinario slittamento di senso che Pietrangeli crea con il suo testo a un certo punto arriva questa frase “abolire gli avverbi dalla mente”. Un gioco di parole e di senso, che allude a molte cose, forse anche a certe ossessioni che impoveriscono la magia combinatoria della lingua scritta. Allo stesso tempo parole e immagini “più sole”, si aprono ad una contemplazione libera e molteplice, lasciandoci capaci di compiere le nostre associazioni. Mi sembra che il tuo videoclip segua questa linea; da una parte un montaggio specifico e ritmico, dall’altra un approccio istintivo che impedisce ad una sola narrazione di prendersi e occupare tutto il discorso. Che cosa ne pensi?

Penso che il testo di Pietrangeli sia straordinario e che sposi perfettamente quello che è il mio immaginario. Se volessimo analizzare questo lavoro fino in fondo, dovremmo partire proprio dalla distinzione tra significato e significante, delle parole così come delle immagini. Amo suggestionare più che mostrare, perciò forse quello che, come dici tu in modo istintivo, ho creato montando insieme quelle immagini, porta con sé una serie di associazioni personali e soggettive. Spero che chi guarda (e ascolta) le colga in modo molto personale e soggettivo. A ciascuno il suo film insomma, come dovrebbe sempre essere.

Videoclip e found footage hanno trovato un nuovo connubio creativo, grazie alle possibilità offerte dai laboratori e dai numerosi archivi presenti in Italia e all’estero. Da una parte lo stock footage che affianca enormi database alla filosofia dell’user generated content e dell’e-commerce, anche per il funzionamento dei motori di ricerca. Dall’altra il lavoro di archivi specifici che pongono al centro la ricerca storica, antropologica e quella sui materiali, anche in termini di conservazione. Cosa ne pensi di questi due aspetti e quale ti interessa di più?

Finora ho lavorato maggiormente con gli archivi storici dell’Aamod, del Luce e con alcuni archivi privati di famiglia, materiali perlopiù amatoriali che forse tra tutti sono quelli che mi interessano di più perché dentro vi si annida un intero mondo spesso ancora inesplorato. La possibilità di trovare in rete molto materiale audio e video utilizzabile e manipolabile per creare nuovi contenuti credo che offra incredibili possibilità creative ed interessanti sbocchi per il futuro sia del cinema che della videoarte (e ovviamente del videoclip).
È sicuramente una tendenza del momento quella del found footage per la realizzazione di video musicali o di documentari e film di finzione, a basso come ad altissimo budget. Il riutilizzo creativo dei fondi archivistici offre enormi possibilità anche a giovanissimi autori che riescono ad accedervi in alcuni casi tramite le piattaforme gratuite e in altri attraverso premi importanti come quello Zavattini indetto dalla Fondazione Aamod e quindi mostrare un proprio punto di vista partendo da immagini preesistenti. Penso sia sempre necessario però farne un uso accorto e consapevole perché oggi più che mai la deriva è dietro l’angolo.

Strutturalmente il found footage applicato al videoclip è radicalmente diverso dalla scrittura di un lavoro di narrazione storica. Lo spazio è più contratto e la relazione con la musica e le parole conduce in un’altra dimensione. Noi lo chiamiamo spesso “spazio di convergenza”, perché molti aspetti possono confluire all’interno di quella cornice: performing arts, arte digitale, danza, cinema, musical. Cosa ti ha interessato e affascinato di questo connubio?

Penso che la realizzazione di un videoclip dia davvero ampio spazio alla creatività, ancor più di quella di un film – anche se nel mio caso ho sempre cercato di realizzare lavori filmici, persino documentaristici, che scardinino lo spazio della narrazione per crearne uno altro, anticonvenzionale. Il connubio tra la libertà che offre il videoclip e quella concessa dalle infinite possibilità del found footage, permetterebbe di creare ogni volta qualcosa di unico. Ma spesso purtroppo non è così, non sempre secondo me questa ricchezza viene colta ed utilizzata al meglio.

Realizzerai altri videoclip, e più in generale, dopo “i racconti del balcone” che hai ideato insieme all’associazione Kinetta, quali sono i tuoi progetti?

Domanda da un milione di dollari. Da quando, finiti gli studi di ingegneria, ho intrapreso questa strada per qualcuno folle e coraggiosa, credo di aver sempre vissuto alla giornata, non facendomi molte illusioni o progettando grandi cose per il futuro. In questo momento storico in particolare credo che fare progetti a lungo termine sia pressoché impossibile, soprattutto per chi lavora nel mondo dello spettacolo e della cultura. Persino “i Racconti del balcone” sono venuti fuori per caso e sono diventati qualcosa che inaspettatamente ci ha coinvolti ed ha coinvolto con noi molte persone anche lontane dall’Italia e dall’Europa. Ho realizzato in questi mesi, oltre al video per Pietrangeli, altri due videoclip ed il cortometraggio che citavo prima, “Orfani del sonno”, che ha avuto la sua vetrina in alcuni festival, purtroppo solo online. Anche se non lavoro esclusivamente con materiale d’archivio e ultimamente ho realizzato video di generi estremamente diversi, tornerò sicuramente a farlo e forse tra qualche mese mi fermerò e tornerò ad occuparmi a tempo pieno della mia associazione e dei progetti che abbiamo lasciato in sospeso a causa del Covid. Non so dirtelo. Credo che più che progettare, si debba fare. Con la consueta ostinazione.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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