Nel 1973, quando Pina Bausch cambiava i connotati e le attitudini del corpo di ballo di Wuppertal, introduceva anche una rivoluzione percettiva. La danza non era più una dimensione separata dalla realtà, ma si faceva attraversare violentemente dall’esperienza mondana incorporando elementi eterogenei il cui denominatore comune era quello dell’intensità emozionale.
Se non ci si sofferma sugli aspetti tecnici, l’eredità che la grande coreografa ci ha lasciato, è una forma del pensiero legata alla rottura di un limite, quello di un universo espressivo non più confinato da recinti generici imposti. Il Tanztheater prima ancora di conciliare due mondi, fondava la propria grammatica anti-sistematica sullo sconfinamento dei linguaggi, lasciando spazio al grido, la declamazione, il pianto, l’esplorazione del corpo e dei sentimenti che si riverberavano sullo stesso.
Chissà se Andrea Franchi, nella scelta di un titolo così preciso e libero allo stesso tempo, non abbia fatto sua la riflessione espansa della Bausch, mettendo al centro il pop inteso come contenitore multiforme, pronto ad accogliere numerose influenze e ad aprirsi alla scrittura in movimento dell’artista pratese, fatta di moltissimi elementi e cresciuta attraverso le attività come autore, polistrumentista, arrangiatore, compositore di musiche per il teatro e infine, produttore.
Tanz! quindi ridefinisce continuamente la sua forma, perché se Il Topo, assumendo le caratteristiche del bestiario letterario, rimaneva comunque entro i confini della raccolta di canzoni come il precedente Lei o contro di lei, il tessuto in questo caso si complica introducendo momenti teatrali e performativi, intermissions strumentali, frammenti inorganici, non semplicemente tra i brani, ma a contaminarne la struttura.
Una materia difficile e magmatica ma rispetto alla quale Franchi non perde mai il filo del racconto, tanto che il processo sembra quasi quello di un romanziere il cui occhio rimane vigile ad osservare un presente disumanizzato, per poi entrarci dentro descrivendone gli aspetti più intimi e personali; sono due polarità entro le quali vengono messi in circolo i suoni algidi e matematici di un’elettronica distaccata (Divoratori, Tanz!) e in opposizione la forma astrale e partecipata di quella analogica che guarda agli anni settanta (Kitchen) ma sopratutto i segni di un cantautorato colto e sviluppato con grande attenzione per il dettaglio, figlio di un minimalismo pop che non è certo sinonimo di esibita povertà strutturale ma che al contrario è cresciuto ascoltando i grandi autori a cavallo tra gli ottanta e i novanta che sperimentavano forzando i limiti strutturali di un genere popolare (Sylvian, Byrne, gli XTC da Skylarking in poi, Philip Glass di Songs for liquid days) riletti alla luce della tradizione italiana, recuperando così quella corrispondenza elettiva che procede dai seminali Otto’p’Notri (si ascolti Doppio Delitto ma anche le bellissime Guarigioni e Immigrazioni) passa per Marco Parente e arriva a Paolo Benvegnù, senza per questo somigliare agli uni e agli altri, ma definendo una propria poetica sulla base di alcune affinità, il cui elemento comune sembra quello di individuare una convergenza umana e intensissima tra organico e inorganico, acustico ed elettronico, tracciando i confini di un suono “classico”, proprio a partire dalla sua incollocabilità.
In questo senso Tanz! pur sfuggendo alle definizioni più stringenti, è un lavoro solido e di impostazione chiarissima, quella di un pop colto, ambizioso e orchestrato nel senso più vivo e combinatorio del termine, che esce fortunatamente dal tracciato ombelicale di una musica composta tra frigo e divano letto, guardando oltre.
Guarigioni, il videoclip