Quella degli Anglo-Saxon Brown è una storia tenuta ben nascosta e che finalmente vede la luce grazie a Soul Music Records, una divisione della Cherry Red. L’unico album pubblicato dalla band si configura come una sintesi straordinaria di tutte le istanze creative che hanno gravitato intorno al Phildadelphia Soul. “Songs for evolution” viene pubblicato per la prima volta su supporto CD dopo una circolazione esoterica su vinile Atlantic che risale all’anno di pubblicazione, il 1976. Questa è un’edizione allargata che include il singolo “Straighten out” pubblicato sempre su atlantic durante lo stesso anno. Prodotto da Jospeh Jefferson e da Charles Simmons insieme al team del primo, figura chiave nel contesto Philly sound, l’album fu registrato ai mitici Sigma Sound di Philadelphia, sede storica di quel suono e luogo dove David Bowie registrò nel 1974 buona parte del suo Young Americans.
La band vide i natali attraverso una lunga gestazione che sostanzialmente iniziò a partire dall’interesse di Jefferson per gli Ujima, una band stanziata a Richmond in Virginia, che il noto produttore ebbe modo di ammirare dal vivo nel 75 mentre si trovava di passaggio in città dopo aver fatto visita ai genitori nativi di Petersburg. Ujma era una parola di origine Swahili che indicava il lavoro collettivo ed era stata scelta quando la band era sotto il management di Nick Colleran degli Alpha Studios, nome che è rimasto invariato per un po’ di tempo nonostante ci fossero altre realtà chiamate nello stesso modo. Come Ujima la band realizza alcuni 45 giri già dai primi anni settanta fino all’integrazione di una vocalist di eccezionale talento come Debra Henry che rimarrà poi la voce chiave di alcuni brani degli Anglo-Saxon Brown diventati “classici” introvabili nella categoria “rare groove” britannica, oggetti di culto per i Dj tra soul e propaggini disco dance.
Quando Jefferson li incontra nella band erano già subentrati alcuni elementi stabili della seconda formazione come Carlton Robinson, il chitarrista Clemente Burnette e il sassofonista Charles Manns che aveva lasciato gli ESP per unirsi agli Ujima. Il percorso che li porterà alla realizzazione di “Songs for evolution” è sostanzialmente contrattuale, quando infatti la Epic scioglie il contratto con gli Ujima, Jefferson li propone ad un amico dell’Atlantic Records, Primus Robinson.
Il nuovo nome della band arriva per combinazione, dopo aver fatto sentire materiale promozionale a Bill Whitten, costumista noto per aver lavorato anche con gli Earth Wind & Fire e in seguito con Michael Jackson. Nell’ascoltare la fusione tra pop bianco e black music, Whitten contatta Jefferson per dirgli ironicamente se la band fosse davvero “black” oppure “Anglo-saxon”. Ecco che il nome “Anglo-saxon brown” si configura come il più adatto per definire la fusione di generi che il combo propone, sospesa tra pop melodico, escursioni bacharachiane e il groove del miglior Philadelphia sound, grazie anche alla produzione Jefferson-Simmons, che contribuisce a modellare il suono definitivo.
“Songs for evolution” è un album che suona ancora potente e originale, sintetizzando al meglio gli aspetti più evidenti di formazioni come MFSB, The O’Jays e Three Degrees nelle loro seconde incarnazioni, passa dal soul orchestrale ad una forte propensione per il groove a partire dall’opener “Gonna make you mine“, il cui stile va per forza ricondotto alle produzioni di Jefferson-Simmons, coadiuvati dall’arrangiamento di Jack Fraith, già con Billy Paul, The Jacksons, MFSB, The Three Degreees. Dalla seconda traccia il groove si intensifica, perché se “Straighten it out“, singolo di traino pubblicato in quegli anni dalla Atlantic per lanciare l’intero album, si muove sul solco melodico della precedente, anticipando certe produzioni dei tardi settanta di Michael Omartian, emerge anche un aggancio ritmico molto vicino per esempio al soul languido e inesorabile di Isaac Hayes.
Questo approccio si evolve nel vero e proprio tema della band, “ASB Theme”, dove le influenze jazz chitarristiche di Burnette e gli archi magniloquenti arrangiati da Faith si fondono al lavoro di Jefferson-Simmons-Robinson, orientato a costruire un incedere disco-funk irresistibile, tanto da qualificare la musica del combo come una via di mezzo tra istanze narrativo-cinematiche e groove potentissimo
E in effetti se il dancefloor esplode nella contagiosa “The Grizzly“, tormentone tra cori e groove, “Disco music” può essere tranquillamente acquisita come un manifesto di tutto il 1976 insieme ad altri classici del genere, tanto da prefigurare in modo sorprendente quello che gli Chic di Nile Rodgers avrebbero fatto l’anno successivo, un vero e proprio capolavoro anticipatore di mode e tendenze, con una coda Jazz-orchestrale straordinaria.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dallo slow di “The man i love”, il groove trattenuto di “Call me“, dove una straordinaria Debra Henry esprime tutto il suo incredibile talento per le melodie non lineari, supportata da un’orchestrazione degna del miglior Bacharach, autore citato ampiamente e in modo intelligente anche nella successiva e conclusiva “I’ll keep lovin’ you”
È Jefferson stesso che ha definito il lavoro degli Anglo-Saxon Brown come un esempio unico e irripetibile di musica urbana nella sua fase nascente, proprio per la fusione di elementi pop, jazz, funk e rock e naturalmente disco music.
La storia degli ASB dopo un ampio tour statunitense si arresta quasi subito, per l’accoglienza tiepida dell’album e per lo scioglimento del contratto di collaborazione con Jefferson. Il progetto sarà rinominato Silk, ma questa è un’altra storia. Ci rimane un album assolutamente unico nella sua miscela sonora, da recuperare obbligatoriamente per tutti gli amanti del Philadelphia sound al confine con la nascente disco music.