Jillian Banks cresce artisticamente in un momento in cui la “conquista dello spazio” digitale nè delinea uno virtuale e convergente, un nuovo “mediascape” caratterizzato dalla frammentazione e allo stesso tempo dall’espansione dei formati in termini di durata, collocazione, fruizione. “Unruly media”, per prendere in prestito il titolo di un testo bello e importante come quello scritto da Carol Vernallis sui nuovi media digitali. Il contesto che descriviamo viene abitato da Banks in una prima fase per diffondere la sua voce attraverso la rete, un word of mouth acquisito e filtrato da una serie di produttori che sulla soulfulness della giovanissima interprete di Los Angeles, impostano mood, suoni e narrazione, contribuendo a dar forma alla riconfigurazione promozionale del singolo attraverso le capacità sintetiche dei social media preposti alla condivisione audiovisiva. Utilizzando instagram, facebook, youtube, Vine, lyrics video, dalla fine del 2013 Banks diffonde un brano ogni due mesi circa, raccogliendone una parte nella confezione di London Ep, ma sopratutto creando le condizioni per dialogare nuovamente con il desiderio e l’attesa di ascoltatori e fan.
In questo senso Banks è una via di mezzo tra un’internet diva è un’artista confidenziale, un contrasto che si percepisce nella sovrapposizione tra il fenomeno virale che le ha permesso di essere conosciuta e quella noncuranza che subito dopo la pubblicazione di London EP l’ha spinta a diffondere il suo numero di telefono attraverso il profilo facebook ufficiale: “non sono mai stata così dipendente dai social media, non ho facebook ne twitter ne instagram; vorrei connettermi con le persone attraverso la mia musica e vorrei che gli ascoltatori facessero lo stesso, per questo mi sono detta, quale modo migliore se non quello di render noto il mio numero di telefono?”
Vulnerabilità o strategia, Banks si è trovata in quel crocevia tra privato e pubblico, rifiuto e aderenza, voglia di esserci e di scomparire, che delinea la dimensione espansa dei social media nella prassi quotidiana, quella che recentemente il geniale Bruce Wagner ha descritto con uno dei suoi consueti motti di spirito come uno spazio dove “tutti saranno famosi per tutto il tempo, superando il limite dei noti quindici minuti Wharoliani”.
Se Banks abbia o meno risposto a tutti i messaggi ricevuti dai fan impazziti come ha dichiarato, non è importante, perchè a persistere sono le tracce di una potentissima mitologia che si è servita dei mezzi connettivi per incollare i pezzi di un’icona pop nata dall’innesto di elementi della cultura digitale nel guscio comunicativo dell’R&B a larga diffusione, un’operazione globale che dialoga con l’interno e l’esterno del manufatto, in un modo molto più pervasivo e sottile rispetto alla liminalità esibita di Tahliah Barnett (FKA Twigs) fenomeno legato ad una cybercultura post-umana esplicita e di retroguardia, che recupera furbescamente persino gli stimoli Afrofuturisti come esca per quell’intellettualismo nerd modaiolo pronto ad infiammarsi di fronte ad un décor Egiziano, senza alcuna memoria del significato visionario e metastorico che quei riferimenti avevano nella musica “politica” di Sun Ra.
L’universo di Banks è apparentemente più classico, e senza arrischiarsi, fortunatamente, in territori transculturali si fa carico della sintesi di forme complesse (digitali, musicali, identitarie) attraverso un’alchimia popolare dal forte impatto comunicativo, ponendo al centro la forza e la fragilità emotiva del performer. Attrattore efficace se si pensa che tutto il lavoro condiviso dalle produzioni di Sohn, Lil Silva, Shlohmo, Totally Enormous Extinct Dinosaurs, Jamie Woon, è un vero e proprio sistema dinamico teso a costruire la percezione di un “Banks Sound” come fusione di moltissimi stimoli della club culture (underground e non) nel racconto musicale di un’interprete soul bianca che cerca prima di tutto di far arrivare l’impatto emozionale della sua voce, sottilmente sempre più lontana dalle radici tradizionali dell’R&B che conosciamo. Banks è quindi classica nel modo in cui comunica passione, sentimenti, dipendenza e sottomissione affettiva, ma allo stesso tempo costruisce un linguaggio crepuscolare, depotenziando l’essenza rituale della black music per favorire un sussurro erotico e allucinatorio dalle caratteristiche introspettive. Immersa in un’oscura atmosfera digitale downtempo, passa dal caldo al freddo inoculando un’erotismo torrido e freddissimo, avvolgente e disturbante come quello sperimentato nell’ambito inter-relato delle relazioni connettive.
Un processo identitario che invece di esser reso esplicito tematicamente o in termini scopertamente metalinguistici, parla al corpo e alla mente con la forza pop di una musica affettiva, poco importa quali sensi sia in grado di stimolare. Banks tiene perfettamente in pugno le redini del progetto, non solo attraverso una delle voci più versatili in circolazione, ma con un album che non delude le aspettative rispetto ai singoli conosciuti fino a questo momento. Della tracklist complessiva i brani completamente inediti sono sette, il cinquanta per cento di Goddess, e la sensazione è che dalla frammentazione dei bpm, dal profondo di questo soul sotterraneo, dall’immaginario erotico tra corpo e digitale, dagli stimoli residuali della club culture, dall’immediatezza dell’R&B, dalla r-esistenza alla realtà consensuale, Jillian Banks stia costruendo l’icona pop di una nuova “classicità” anche se i giorni sono quelli di un’epoca liquida.