Quattro anni sono ormai il periodo di tempo standard da attendere per le pubblicazioni di inediti dei Battles. Se si esclude, appunto, la parentesi dei remix intitolata Dross Glop e realizzati sulla base dei brani contenuti in Gloss Drop, la band ha dato alla luce il nuovo La Di Da Di solamente a settembre, a seguito di alcune gustose anteprime, fra cui l’interessantissimo documentario Battles: The Art of Repetition, nel quale la casa di produzione del software Ableton ha seguito per tre settimane la band nel proprio studio di registrazione, e l’esibizione all’ultimo Ypsigrock Festival di Castelbuono, non esente da critiche.
Primo album interamente strumentale della band, La Di Da Di prosegue il procedimento di destrutturazione già avviato con Gloss Drop, rendendolo al tempo stesso più sottile ed incisivo. Coerentemente con il passato, i brani dei Battles nascono da un inciso melodico/ritmico minimale che prende vita man mano con l’aggiunta di altri piccoli elementi a strati, con la batteria di John Steiner a dare il via definitivo nella maggior parte dei casi.
Di volta in volta, ogni elemento musicale (melodia, armonia, ritmo) subisce minime variazioni, come in un labirinto di specchi rotti, nel quale tutto sembra uguale eppure è diverso. Il tempo viene tirato di qua e di là nell’iniziale “gamelan giapponese” di The Yabba, i synth volano in ottave lontanissime tra loro nei continui spostamenti di accento di Dot Net, FF Bada ogni volta riparte con accelerando quasi impercettibili, le dolci dissonanze dell’intermezzo ambient di Cacio e Pepe sono giustapposte sempre in maniera differente. In questo, anche il titolo del succitato minifilm The Art of Repetition è ugualmente illuminante ed ingannevole.
Letto sulla carta il giochino può apparire a prima vista totalmente freddo e cerebrale; ma dopo ripetuti ascolti diventa irresistibile la tentazione di scoprire passo passo cosa cambia e dove, cosa è campionato e cosa è suonato in diretta tenendo conto che a parte la batteria di Steiner, Ian Williams e Dave Konopka si spartiscono più o meno equamente chitarre, bassi, sintetizzatori e programmatori. A ciò si aggiungono una registrazione e una produzione perfette, magistrali nel rendere caldi e coinvolgenti suoni in partenza algidissimi, e un tiro esecutivo sempre notevole, ovviamente più evidente dal vivo che non su disco. Ed è affascinante scoprire come tutta l’operazione possa essere vista anche come una sottile satira dei generi musicali (la pseudo-techno di Simmer Sammer, il jingle gommoso di Dot Com, il glitch di Non-Violence, la chiusura da festa popolare cinese di Luu Le), nonché del repertorio della band stessa (Tricentennial è una ripresa – volutamente? – fiacca e funerea di Atlas), che è la prima a non prendersi sul serio: basti dare un’occhiata ai titoli. Unico difetto, un lato B sensibilmente più fiacco della prima metà.
In questo fantasioso gioco d’incastri emerge tutta l’intelligenza e l’abilità compositiva di arrangiamento ed esecutiva del trio statunitense, senza dubbio una delle formazioni più importanti degli ultimi quindici anni. La loro musica è lineare e contorta come un nastro di Möbius, concettuale e immediata, astratta e fisicissima al tempo stesso, in sintesi contemporanea senza che questo aggettivo debba significare “ostico” o peggio ancora “noioso”.