giovedì, Novembre 21, 2024

Beatrice Antolini – Iperborea: recensione

Tra azione e ricerca interiore. Su "Iperborea", l'ottimo album di Beatrice Antolini

Il conoscitore di segreti, chiunque sia, impegna la parte più importante della propria ricerca verso il superamento del dualismo che ha caratterizzato la cultura occidentale. La comprensione della realtà allora può espandersi e non opporre più alcun filtro a quella relazione quotidiana che si instaura tra epifenomeno ed esperienza extrasensibile. Per i Buddhisti Tibetani è una prassi specifica di svuotamento, necessaria per raggiungere quella che potremmo chiamare, attraverso numerose tradizioni, mente naturale.
Contro quelle categorie censorie che hanno spezzato la comunicazione tra terra e cosmo e che dialogavano solo nell’intensità dell’infanzia, per rubare una splendida espressione di Rilke, c’è una fitta rete di rivelazioni che attraversano la storia della filosofia, della mistica e dell’ingegno creativo.
Una dimensione non sempre facile da definire attraverso gli strumenti della critica materialista, ovunque dominanti e spesso applicati con incoscienza mimetica.
Iperborea, primo album di Beatrice Antolini cantato in lingua italiana, si incunea in modo assolutamente personale in questo percorso, tanto da porsi di fronte ad alcuni interrogativi emersi nuovamente durante l’esperienza globale di isolamento, con grande chiarezza e allo stesso tempo, con quella capacità combinatoria che stratifica il senso senza barare con il segno.

Già dai due singoli, “Il timore” e “L’idea del tutto“, si evidenzia la coesistenza di azione e contemplazione come necessario antidoto alle fratture della realtà percepita. Due movimenti apparentemente agli antipodi e che invece trovano la necessaria complicità per superare le insidie del condizionamento.

Beatrice si serve di potenti forme figurali dove qualsiasi espressione della coscienza viene messa di fronte ad una possibilità che ne rilanci il significato, dalle relazioni affettive all’ipnosi collettiva che nella realtà aumentata nutre le illusioni dell’io, moltiplicandone le maschere.
L’arte dell’abbandono” è in questo senso specifica. Al valore nominale di cose e ruoli, materializzati da intenzionalità collettive, si oppone la capacità di lasciare tutto, conservando il poco che consentiva ai Padri del deserto l’ingresso nell’interiore.

Svuotamento, abbandono, perdita, parole che assumono allora altre valenze.

La fusione tra spinta contemplativa e azione diventa il propellente creativo di tutto l’album, nelle continue contaminazioni, anche interne ad un singolo brano, tra oriente ed occidente, città e annullamento dell’orizzonte urbano.

Eppure in quella prospettiva l’album è straordinariamente immerso, come ci mostra il bel video de “L’idea del tutto”, diretto da Michele Piazza su concept della stessa Antolini.
Ne rileva quindi le contraddizioni, le spaccature entro cui individuare un’altra realtà. E lo fa con un lessico multiculturale, che dalla forma sinfonica legata anche alla tensione drammatica e circolare della musica per il Cinema, passa con estrema libertà alle sonorità della strada, vicinissime al cuore etnografico e molto lontane da quei cliché diffusi nel pop italiano.

Proprio la title track raccoglie tutti questi stimoli come fossero innesti su una trama mutante, dove lo stesso cantato di Beatrice segue altre poliritmie.

L’india di “Pensiero Laterale” all’interno di un corpo sonoro noise-industrial, oppure certi suoni che emergono ne “L’arte dell’abbandono“, timbricamente e nell’essenza vicini alla ricerca apolide di Jon Hassell, proprio per la difficile collocazione, tra la musica tradizionale giapponese, quella del Tibet o l’eco della cultura aborigena australiana.

Viene in mente, ascoltando la coda strumentale di “Restare” quel sistema di risonanze che nella musica di Artem’ev per Stalker, il film diretto da Tarkovskij, riusciva a modificare una tradizione dentro l’altra, rendendo così indistinguibili provenienze e latitudini culturali distanti eppure vicinissime.

Si verifica allora anche sul piano sonoro una vera e propria dispersione dell’io verso una dimensione cosmica, che nel lavoro di Beatrice Antolini vive ancora della ricchezza di una componente attiva.
L’azione non è oppositiva alla ricerca interiore, sembra suggerirci Iperborea, ma il fuoco che rende possibile il dinamismo dell’identità nella molteplicità.

Beatrice Antolini su Instagram

Beatrice Antolini – L’idea del tutto, il videoclip

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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