venerdì, Novembre 22, 2024

Bill Fay – Who is the sender? – la recensione

Bill Fay è stato oggetto di una serie di riscoperte progressive ancora prima del suo ritorno con Life is people, pubblicato nel 2012 dalla Dead Oceans dopo più di quarant’anni dai suoi due album usciti per la Decca rispettivamente nel 1970 e nel 1971. Nel mezzo le ristampe dei suoi primi lavori alla fine degli anni ’90 e a ruota un recupero di alcuni vecchi demo incisi tra il ’67 e il ’70, raccolti nel 2004 dalla Wooden Hill e il materiale successivo inciso alla fine dei settanta, incluso nell’album pubblicato nel 2005 dalla Durtro Jnana, l’etichetta di David Tibet; un percorso sotterraneo che ha influenzato molte generazioni di musicisti pur rimanendo uno di quei segreti ben custoditi, in linea con la vita di un musicista che per necessità e scelta aveva imboccato la strada della marginalità.

Basta ascoltare i due album registrati prima di abbandonare le scene, attraversati da una classicità eccentrica che faceva da ponte di collegamento tra il folk inglese e la tradizione americana in una forma intimista, guidata dall’impostazione onestamente confessionale della sua voce. Persino le differenze tra il primo album, occupato dagli arrangiamenti di un’orchestra full range, e il successivo Time of the Last Persecution, attraversato dalla chitarra nervosamente bluesy e freeform di Ray Russell, venivano mitigate dalla sua inflessione vulnerabile e da un songwriting che ha messo sempre al centro il pianoforte con quella semplicità minimale vicina ad artisti a lui contemporanei come Nick Drake ma anche a quelli delle generazioni successive come Nick Cave, Jeff Tweedy e lo stesso David Tibet, quest’ultimi testimoni diretti e mentori del suo ritorno.

Who is the sender? arriva tre anni dopo Life is people e conferma il team di musicisti che aveva contribuito al suono di quell’album, inclusi Alan Rushton e Ray Russell, due dei collaboratori di Fay dai tempi della Decca.
È lo stesso Fay che descrive il nuovo lavoro come un “gospel alternativo”, ravvivato da quel contrasto che si trova a metà tra la malinconia e l’ottimismo; sguardo rivolto verso il vuoto e immediatamente proteso verso il desiderio di trascendenza che ha sempre caratterizzato la sua musica. Convive quindi la descrizione impressionista di una natura che fiorisce sotto lo sguardo e l’improvvisa azione dell’uomo che ne sporca i colori con quelli del sangue; basta ascoltare una traccia come “Underneath the sun” per capire quanto la visione del musicista londinese si muova con lucida serenità tra queste due prospettive antipodali.

E se il sentimento anti bellico che attraversa tutta la sua musica trova compimento in un brano come “War machine” è chiarissimo come la differenza rispetto ad un immaginario di questo tipo risieda proprio nel tono e nella capacità di esprimere un sentimento attraverso le ferite del cuore, allineandosi maggiormente alla tradizione delle torch songs che non a quella della canzone di protesta; tra l’istinto ad uccidere del falco e la propensione dell’uomo all’autodistruzione c’è quell’osservazione della natura di cui parlavamo che per Fay ha un senso ben preciso, lo stesso che gli consente di dedicare un brano come “The Freedom to Read” a William Tyndale, bruciato al rogo nel 1536 per eresia nell’Inghilterra luterana di Enrico VIII, per aver tradotto la Bibbia e il Nuovo Testamento in lingua inglese.

Mentre gli archi descrivono uno scenario avvolgente e infinito, su questo paesaggio sonoro Fay innesta il piano e l’organo come elementi di un discorso ascensionale, il riferimento è quello alla musica delle radici, e gli consente di assumere un punto di vista che non indica mai il riscatto salvifico dal dolore della vita, al contrario è la tensione verso l’invisibile che trasforma la sua voce in un lamento per una chiamata senza alcuna risposta; vengono i brividi quando a conclusione della tracklist ritroviamo “I Hear you calling”, terza traccia di Time of the Last Persecution la cui sostanza diventa davvero quella di un gospel laico e “give me back my time”, pronunciata a settantanni, assume un senso completamente diverso.

 

Ugo Carpi
Ugo Carpi
Ugo Carpi ascolta e scrive per passione. Predilige il rock selvaggio, rumoroso, fatto con il sangue e con il cuore.

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