martedì, Novembre 5, 2024

Bob Dylan, ipnotico e intenso al Lucca Summer Festival: recensione

Bob Dylan, la realtà e il suo velo. Lo splendido concerto al Lucca Summer Festival, sospeso nel tempo.

Dylan si é scocciato dei bootleg condivisi a cui da tempo la rete ha dato la stura. Video partecipativi, storie, frammenti che circolano in formato reel e canzoni intere registrate con lo smartphone, successivamente pubblicate sul tubo. Siderali i tempi in cui un bootleg registrato in analogico sbucava nei negozi di dischi con tanto di bollino SIAE.

Eppure, chi ha superato i quaranta ricorderà quanto fosse molto più capillare il controllo ai cancelli durante tutti gli anni ottanta, alla ricerca di qualche registratore da sequestrare.

Oggi abbiamo un solo dispositivo per assolvere ogni funzione connettiva disponibile, tanto da sostituire anche il fuoco degli accendini durante i momenti apicali di un concerto. In quelle occasioni, un’estesa luminaria digitale rimpiazza migliaia di fiammelle incerte.

Sono sicuro che per l’autore di Duluth non sia una questione di diritti, ma di qualità dell’esperienza. Negare il suono e le immagini selettive dei telefonini, così brutali nel restituire per eccesso o difetto quello che accade sul palco, é solo una parte del problema. L’altra, forse la più rilevante, é l’ossessione di inquadrare, riquadrare e portarsi a casa un pezzo di quella cornice, tanto da aver reso intollerabile, per nudità e intensità, l’esperienza spettatoriale caratterizzata dall’attenzione.

Sono d’accordo con Dylan. Sono d’accordo sulla necessità di recuperare quella nudità. Per chi scrive, la democrazia digitale declinata in modo pervasivo é una volgare idiozia, non ha niente a che vedere con i progressi della società liberale, casomai ne rappresenta la tomba.

Se la grande venue non favorisce come il teatro lo stesso livello di attenzione, i piani di realtà che l’esperienza collettiva consente sono numerosi. Tra questi, la capacità di accogliere le vibrazioni altrui, cercando conferme nei volti, nelle mani, nei corpi di chi é venuto a celebrare un rituale laico.

Le forme di distrazione durante un grande concerto sono moltissime e tutte vitali, perché restituiscono ciò che arriva direttamente dall’artista, nelle reazioni individuali e soggettive. Questo a dispetto di un’enorme platea seduta.

Senza uno schermo di mezzo, le microspie del nostro quotidiano finalmente non possono illuderci di scansionare quel punctum che si manifesta ogni volta nel luogo in cui un artista dona parte del suo percorso. Dylan sembra allora suggerirci di recuperare il valore del desiderio, stabilendo quella distanza necessaria tra creatore di mondi e cittadino che li può abitare.

In termini pratici i dispositivi vengono sigillati e riconsegnati subito ai legittimi proprietari dentro una borsa di stoffa preposta dalla ditta Yondr, uno standard veloce ed efficace che ricorda i metodi dell’anti taccheggio adottati dalle catene commerciali di abbigliamento.

É un’esperienza salutare mettere a dormire il proprio smartphone, aiuta a prepararsi per uno show che ha caratteristiche tanto emotive quanto interiori.

La scena si presenta come quella di un grande club, con la tenda del sipario illuminata dal basso, per evidenziare il rosso fuoco di uno spazio quasi lynchiano.

E fa pensare sempre a David Lynch la disposizione dei musicisti, statica e presente in una dimensione sospesa nel tempo, come quella del Club Silencio.

Il setting é molto vicino alle suggestioni di un’iconografia jazz, con la batteria dominata da Jerry Pentecost, che nei piú recenti concerti del 2023 ha sostituito il notevole Charley Drayton, mantenendo comunque un approccio fisico e sottile allo stesso tempo.

Un equilibrio difficile che divide l’elemento ritmico con l’alternarsi di basso e contrabbasso nelle mani di Tony Garnier, ombra di Dylan per la collocazione immutabile dietro l’artista americano, ma soprattutto per questa presenza sonora sotterranea, collocata tra cuore e cervello.

Bob Britt trascina l’andamento bluesy di tutto il concerto, tra la Les Paul e la Stratocaster, definendo i suoni in forma tagliente e tersa, con una versione dilatata e decisamente visionaria del lessico Americana.

Lo spirito di “Rough and Rowdy Days” si prende quasi il cinquanta per cento del concerto, con la tracklist completa ad eccezione dei diciassette minuti di “Murder Most Foul”, ma investe di senso i salti temporali dagli anni sessanta fino agli ottanta.

I brani dell’ultimo album cambiano, si espandono, non per durata ma per concezione, elaborando i confini di un blues ipnotico, ossessivo, spiraliforme, tanto da far pensare in alcuni episodi, più per essenza che per sonorità, allo spirito dei Velvet Underground durante una jam.

Doug Lancio, il secondo chitarrista é sulla destra del menestrello del minnesota e Donnie Herron, polistrumentista aggiunto, arricchirà con violino, lap steel e mandolino alcuni momenti dello show.

Bob Dylan occupa naturalmente il centro, ieratico e seduto dietro un pianoforte. Non é il mezzacoda dei recenti concerti spagnoli, più vicino al verticale esibito in quelli del 2022, almeno da quello che si poteva percepire da un quadro a distanza e volutamente ipovisivo.

A dispetto della collocazione quasi mentale del setting, lo spirito con cui Bob si muove sui tasti é confidenziale, vicino ai margini di un saloon, ma soprattutto al cuore dell’intrattenimento vaudeville, che emerge come fil rouge, talvolta alluso e invisibile, lungo tutta la carriera del nostro.

L’enfatizzazione honky-tonk che investirà “Phalse prohet” prenderà proprio quella direzione. In piedi o seduto, starà dietro la tastiera per tutta la durata del concerto, senza metter mano alla chitarra e imboccando l’armonica solo durante l’esecuzione di “Every Grain of Sand”, alla fine del set, quasi per scardinare la disillusione piú cruda delle liriche inanellate fino a quel momento, con la luce della rivelazione, l’unica che può ancora illuminare il crepuscolo dell’occidente.

Per tutta la serata l’incedere segue il groove narcolettico e tagliente senza mai perdere l’obiettivo: muovere continuamente le radici di un sentimento, mentre la voce e il piano del cantastorie deragliano e creano una crepa potentissima nell’edificio sonoro.

Può darsi che Dylan a 82 anni si sia inventato una strategia per coprire una gamma vocale sostenibile, é una questione che potremmo sollevare anche per il Bowie degli ultimi due album. Ma c’è dell’altro rispetto ad uno sguardo tecnicista che non ci interessa, ed é la costante di una voce mai riconciliata, che nel contrasto ha sempre cercato una dimensione emozionale tra la funzionalità dello storytelling e la trasformazione della parola in puro strumento.

E il Dylan del concerto lucchese era anche questo, nel dialogo tra la qualità percussiva e minimalista del piano e una voce che atterra sui suoni come una breccia di vitalità commovente.

Ipnosi, meditazione di uno spazio alieno dal quotidiano, ossessione, disillusione e improvviso rilascio. Caratteristiche di una musica dell’anima che supera la cornice asfittica dello standard per diventare dispositivo poetico e ambulante.

Se il Dylan live ha offerto al proprio pubblico cambi repentini di scaletta, sorprese continue, riscritture in corso d’opera, questo interminabile tour si avvicina a quelli della rinascita cristiana tra la fine dei settanta e l’ottanta, per la costruzione del set intorno al perno di nuovo materiale.

Si alternano le cover durante le serate e ieri é toccato ai Grateful Dead, ma tutto rientra in un discorso narrativo ben preciso dove la trasformazione é interna e progressiva agli stessi brani, basta pensare a cosa é diventata “Black Rider” rispetto alla versione su disco.

Quasi alla fine, i versi di “Mother of Muses” ci preparano ad un commiato dove la luce passa come un bagliore: “I’m traveling light and I’m slow coming home”. Questi si riflettono sulle liriche che chiudono la conclusiva “Every Grain of Sand”.

Appesi sull’orlo di un progetto perfettamente concluso, come granelli di sabbia, si rimane attoniti per il modo in cui l’immagine di Dylan compare e scompare dai confini del palco, senza bis e con il buio che se lo inghiotte nuovamente, spazzando via anche l’impero della mente a cui crediamo di aver assistito.

La videocamera di un telefonino non avrebbe potuto testimoniare questo potente stato di transito, tra la vita e il fantasma, la realtà e il suo velo.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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