Bobo Rondelli è tornato con un nuovo disco, Come i Carnevali, che già dal titolo omaggia Emanuel Carnevali, poeta che colpì l’immaginazione di altri musicisti, in particolare Emidio Clementi. Il richiamo alla poesia del titolo sta anche a simboleggiare un ritorno a testi introspettivi, abbandonati o perlomeno messi in secondo piano dopo Per amor del cielo, lo splendido disco del 2009 che ci aveva fatto capire quanto Rondelli non fosse solo il guascone che si era fatto conoscere con l’ironia dissacrante degli Ottavo Padiglione, ma anche un autore capace di far erompere i suoi sentimenti attraverso testi e canzoni di altissima fattura. Come i Carnevali è una conferma di questa sua capacità, che emerge attraverso splendidi episodi come Nara F., dedicato alla madre scomparsa, o Cielo e terra, dove si sottolinea l’importanza universale dell’amore con i suoni legati al miglior cantautorato italiano degli anni Ottanta. Per capire meglio cosa si nasconde dietro a questo nuovo album e a questo frangente della sua carriera abbiamo incontrato Bobo dopo il suo trionfale concerto alla Salumeria della Musica di Milano lo scorso 1 aprile. Ecco cosa ci ha raccontato.
Come i carnevali segna un ritorno alle atmosfere di Per amor del cielo, dopo la sarabanda balcanica del disco con L’Orchestrino. Come mai questo ritorno ad atmosfere più intime, tra l’altro sempre con Filippo Gatti come produttore?
Perché il mio compagno intimo musicale è Filippo Gatti, è l’unico che riesce a estrapolare la mia parte più intima. È un caro amico, un grande regista discografico, perché il produttore è come il regista, ti dice di tagliare le frasi che reputa inutili oppure ti dice di spostare la voce in un’altra sonorità. È un grande pensatore Filippo. La fase intima forse è legata alla perdita materna, la vita ti porta a vivere momenti in maniera più forte. L’intimo poi si ricollega a una ricerca di purificazione e di ripartenza, quindi non so cosa farò nel prossimo disco, mi basta che sia un viaggio in cui non mi annoio, perché come diceva Schopenauer quando uno sia annoia o finisce nel gioco d’azzardo o nell’alcolismo o nella lussuria più sfrenata. E invece la moderazione è importante, perché chi va sul palco e si butta via poi sogna una vita più moderata.
A proposito di cose intime e personali, ci sono due brani legati al tema della famiglia, “Autorizza papà” e “Nara”. Come sono nati i brani? E sono messi vicini nella tracklist per suggerire un’unione tra generazioni?
Le ho messe vicine perché sono le canzoni in cui emerge il mascalzone che sono: mascalzone con mia madre e mascalzone con mio figlio, nel senso che alla fine siamo tutti un po’ mascalzoni ed è giusto far capire a tuo figlio che vuoi divertirti e che non vuoi fare il padre palloso. Sono un po’ contrario al fatto che il padre debba essere autoritario ed educatore, perché non saprei cosa dirgli di questo mondo. Posso al massimo dirgli cosa non deve fare. Il legame con lui è molto da ragazzi insieme, quando ridi insieme con qualcuno, anche se è tuo figlio, nasce un forte legame d’amicizia. C’è chi dice che non bisogna essere amici dei figli, ma io non credo che sia così. Poi nasce anche da lì il rispetto, quando fai ridere una persona e poi per un po’ non ti vede, va a finire che le manchi.
Consiglieresti a tuo figlio di fare il musicista?
Sì, però lo farei cominciare con lezioni di basso, cioè uno strumento dove non c’è da fare un cazzo, poi se ha voglia magari il pianoforte o quello che preferisce. Il primo accesso alla musica secondo me è il basso, poi dal basso parte un po’ tutto, partono i giri del rock. Basso e batteria sono le fondamenta della casa.
Per alcuni testi hai lavorato con Francesco Bianconi dei Baustelle. Come siete arrivati a questa collaborazione e come è stato lavorare con lui?
Grazie a Toto Barbato, che è il mio agente. Io stimavo Francesco, lui stimava me, quindi ci siamo trovati in un bar e gli ho detto di darmi una mano, al che lui ha risposto “perché no?”. Tutto nasce così quando ci si piace, è come chiedere a due che stanno insieme come è cominciato, come si sono incontrati. Quindi non ricordo esattamente, quando incontro le donne poi mi rimane nella memoria, gli incontri con i maschi invece tendo a rimuoverli.
Già dal titolo del disco c’è un omaggio a Emanuel Carnevali. Cosa ti ha colpito della figura di Carnevali?
Emanuel Carnevali secondo me è uno degli iniziatori della beat generation. È un italiano che senza sapere nemmeno una parola di inglese a sedici anni se ne va in Inghilterra e impara la lingua dai cartelloni pubblicitari fino a diventare poeta. È il precursore di John Fante, se vogliamo. Poi ha una scrittura tagliente, una scrittura nuda e cruda, sono memorie di un anarchico, che non gliene fotte di niente, già allora diceva che i preti erano tutti pedofili, parlava di lui che raccattava cicche, lavava piatti e poi andava a finire nei bordelli. Persino Bukowski secondo me è un boy-scout in confronto a Emanuel Carnevali. Però è un autore completamente dimenticato. Io trovai questo libro in casa di un amico, Andrea Rivera, quello che suonava i citofoni dalla Dandini, e l’ho rubato, perché l’aveva abbandonato. Ho visto che era un toscano e ho letto un po’ la biografia, quindi ho deciso di portarmelo via. Poi ho scoperto che Carnevali andava in casa degli amici e rubava i libri, quindi è come se lui mi avesse chiamato e mi avesse detto “portami via”. Nel mio piccolo ho voluto dedicargli una canzone, che se ci pensi è anche un po’ triste che chi fa canzoni abbia più accesso alla gente; purtroppo va a scomparire la bellezza suprema di questi letterati dimenticati, come appunto Carnevali o anche Dino Campana.
Nella canzone Carnevali è citato con un altro tuo grande amore, Piero Ciampi. Cosa unisce le due figure secondo te?
Perché anche Ciampi fa parte di quella schiera, di gente che rovesciava tavoli. Io invece non ho mai il coraggio di essere sgarbato. Penso che quando arrivi alla poesia più completa, poi va a finire che fai vita jazz, improvvisi in continuazione, bevi e ti ritrovi molto solo, perché la poesia così alta porta anche al delirio. Io preferisco stare in armonia con la gente, perché se no poi diventa un martirio e muori giovane. Io principalmente sono in missione per gli alimenti che devo dare ai miei figli e cerco di conservarmi per il fatto di vederli. Dare il meglio del mio amore mi fa sentire come se non morirò mai. Non mi fa paura morire quando ho una bella armonia con i figli.
Sono molti gli omaggi al cinema, da Visconti al Conte Mascetti, però quando ci incontrammo del 2013 mi dicesti che non ti senti “attore”, perché preferisci interpretare te stesso. Si può dire che hai un rapporto di amore-odio col cinema? O come lo definiresti?
Io non sono un grande lettore quindi ho visto tanti film, poi avevo una fidanzata che aveva la tessera del cineclub, quindi mi sono visto i film di Buster Keaton dalla mattina alla sera, poi tutta la serie di Humphrey Bogart. Una volta mi addormentai con addosso una giacca da marinaio americano di quelle con l’ancora ricamata e mi risvegliai con l’ancora stampata in fronte, perché c’era un film in lingua originale con i sottotitoli e avevo anche bevuto un po’ di vino, quindi non resistetti. Comunque mi piacerebbe se mi chiamassero nel cinema, ma siccome non mi chiamano faccio le canzoni. Fare le canzoni è come fare piccole regie, è il cinema dei poveri la canzone per come la vivo io. In molte canzoni ho cercato di fare storie cinematografiche, ad esempio in Cuba lacrime con la storia di un ometto che va nei locali di Rimini con le cubane e perde tutto è molto felliniana, mi ricorda il padre di Mastroianni quando lo va a trovare ne La Dolce Vita e ha un attacco di cuore perché va con una prostituta. Quindi il cinema esce sempre fuori, un altro brano per esempio è Fiore nell’asfalto, che mi ricorda il personaggio di Taxi Driver che si faceva portare sotto casa della moglie mentre era con un altro. In questo disco Autorizza papà è un riferimento a Dino Risi e la sua Educazione sentimentale ne I mostri, mentre Nara F. è perché c’è Umberto D.
Mi interessa molto la storia raccontata in “Maestro Goldszmit”. Come mai hai scelto di dedicare una canzone alla figura di Goldszmit?
Purtroppo quello non è un film, ma una storia vera. Era un pedagogo fantastico, ancora oggi se leggi i suoi scritti capisci quanto fosse avanti. Considerava il bambino meno di un mendicante, perché secondo lui il mendicante poteva considerare suo ciò che riceveva, mentre il bambino non aveva nemmeno questo diritto, aveva una vita non sua e terribile, perché non rispettata nel nome dell’educazione e dell’imposizione. Nel ghetto di Varsavia prendeva tutti questi bambini, molti dei quali orfani, e li educava finché, quando c’è stata la deportazione, ha scelto di accompagnarli durante il viaggio morendo dal dolore , anche se aveva la possibilità di salvarsi. Anche in questo caso ho avuto voglia di far sapere che sono esistiti uomini davvero grandi e forse ci sono ancora, però purtroppo non se ne parla.
Parlando d’altro, durante il live hai citato e omaggiato i Ramones e Tom Waits con I Don’t Wanna Grow Up…
Ho voluto fare il bischero, per rovinare il finale, con una canzone che nemmeno sapevo. Mi piace perché non voglio crescere mai, mi piace anche come la cantava Joey Ramone, perché lui è l’uomo foca, canta un po’ come una foca, come anche Elvis Costello.
Ti definiresti in qualche modo punk?
Sicuramente più dei Green Day, sono punk. Punk vuol dire rottura, sempre provocare, sempre vivere così. Diciamo che sono un genio non della lampada, ma del bidone dell’immondizia. Se strusci un bidone dell’immondizia esco fuori io e ti chiedo “cosa ti serve?”. In questo sono punk
Guardando a tutta la tua carriera, incluso quindi quanto fatto con gli Ottavo Padiglione, quali sono il disco e la canzone a cui ti senti più legato?
No, direi di no, tendo a sentire più quelle degli altri…
Quindi tra quelle scritte dagli altri ce n’è una che vorresti aver scritto tu?
Ultimamente mi piace molto Warszawa di Brian Eno e David Bowie, poi Sound & Vision, poi Decades dei Joy Division e anche cose molto diverse, come James Brown. Veramente di tutto, quindi, ad esempio i coretti in Heart Of Glass di Blondie sono una cosa erotica veramente forte.
Classica domanda di chiusura: progetti per il futuro?
Io rispondo sempre “spero di morire senza accorgermene”.