É necessaria una premessa. Abbiamo scelto di pubblicare sul portale videoclip di Indie-eye la recensione di Borderless, il lavoro diretto da Nicolas Morganti Patrignani su sceneggiatura e musica dell’artista messinese Rosario Gorgoni, perché le scelte estetiche e narrative lo avvicinano maggiormente ad una long form invece che ad un cortometraggio.
Il lessico è quello del video musicale senza particolari sconfinamenti rispetto a certe semplificazioni narrative del genere. L’approccio è infatti diametralmente opposto a lavori come Umshimi Wan, che supera i quindici minuti di durata, rimanendo a cavallo tra cinema, documentario e videoclip.
La musica extradiegetica di Gorgoni è quindi in primo piano per undici minuti ed è su quella che vengono modellate le immagini senza altre interferenze, la cui drammatizzazione subisce un’amplificazione per ridondanza con una strategia desunta dall’advertising.
Quella che i realizzatori definiscono quindi come un’opera ibrida, non lo è affatto, se non nei modi in cui il videoclip dell’era catodica, nel passaggio dai promo allo sviluppo di un’industria modellata sulle televisioni tematiche, imboccava una strada narrativa e tradizionale, elaborando un mondo cinematografico ridotto in scala che sembrava tornare indietro, prima dell’invenzione del sonoro.
Qualsiasi musica, tranne rare eccezioni, avrebbe potuto funzionare su certi piccoli filmetti.
Smalltown Boy dei Bronsky Beat ci sembra l’esempio più calzante, per chiarire i termini, anche se il video diretto da Bernard Rose, storiellina a parte, conteneva già il germe della ripetizione e della manipolazione dell’immagine in un’ottica ritmica e visual, senza attivare ardite sinestesie.
Non è questo il caso di Borderless, che sarebbe potuto durare anche due minuti e mezzo, senza cambiare scelte, modalità produttive, linguaggio e occasioni distributive, a quanto pare legate quasi esclusivamente alla diffusione virale. Ciò che quindi potrebbe collocarlo nella cornice dei cortometraggi è solo in virtù degli undici minuti di durata.
Ovviamente non siamo d’accordo.
Per il team della REA Film c’era quindi la necessità di avere più spazio per raccontare una storia con il linguaggio di molti altri videoclip fotoromanzati, contraendo spazio e tempo secondo principi narrativi lungamente e largamente frequentati. E francamente non se ne capisce il motivo, né la necessità.
La costruzione è a tesi: l’amore apparentemente perfetto tra due uomini, come l’ha definito lo stesso Morganti Patrignani in un’intervista per Varese News, viene minato dalle conseguenze della guerra in Ucraina.
Sempre per il regista, il ragazzo ucraino e la recluta russa protagonisti del video, sono vittime del contesto al quale si oppongono con forza per manifestare il diritto di amarsi in una condizione normale, mentre la guerra stessa assumerebbe un valore simbolico come immagine di tutti i pregiudizi e gli ostacoli che ogni giorno delegittimano questo stesso diritto.
Come elefanti in una cristalleria, gli autori di Borderless entrano a gamba tesa in un teatro di guerra caldissimo, rivendicando una supposta levità estetica che in realtà taglia fuori l’esperienza con modalità brutali.
Ad eccezione dei primi 30 secondi dove una serie di immagini con funzione iterativa sintetizzano l’inizio dell’aggressione russa in territorio ucraino del 24 febbraio scorso, i rumori della guerra vengono cancellati per favorire la visione neoromantica scaturita dalla musica per piano scritta da Gorgoni.
L’Ucraina, grande assente materiale del video diventa allora un pretesto. Gli attori, tutti italiani, si muovono tra Roma e Rieti, e l’intensità che passa attraverso la loro esperienza è mediata dall’immaginazione.
Eppure, anche se volessimo scomodare continuamente Xavier De Maistre, tornato di gran moda durante i giorni della quarantena di Stato, i viaggi intorno alla propria camera possono diventare pericolose approssimazioni se non sono guidati da strumenti culturali adeguati.
Ciò che manca a Borderless è proprio l’esperienza traumatica del confine, anche quello che non può essere superato nella Russia di Putin, dove le restrizioni dei diritti LGBITQ+ sono state confermate e rafforzate dalla Duma l’ottobre scorso; una vera e propria dichiarazione di guerra contro ogni modello libertario immaginabile.
Ciò che allora sorprende negativamente nel video di Patrignani / Gorgoni, è il rimario di una storia romantica qualsiasi, raccontata quasi esclusivamente per close-up, dettagli e primi piani, cioè vicinissima ai corpi e lontana dai luoghi.
Paradossalmente, impostata una distanza incolmabile con la Storia, rivendica a gran voce e in modo pretestuoso una collocazione precisa e definita.
Se non fosse per le didascalie, per i 30 secondi introduttivi e per alcune rimediazioni televisive utilizzate in forma esplicativa, come nello stucchevole passaggio che ci conduce al confine moldavo, nessuna di quelle immagini sarebbe indirizzabile all’esperienza traumatica di una terra stuprata come l’Ucraina di oggi.
Invece di innescare uno sguardo universale, Borderless è allora un lavoro monco che ha bisogno di un surplus di comunicazione per viaggiare sul binario dell’attualità bellica.
Lo conferma l’enorme battage a mezzo stampa e il tentativo di agganciare chiavi di ricerca spendibili, tra cui “gay short film”.
La tematica omoerotica in particolare sembra affrontata con la stessa naïveté con cui si introduce a forza quello sfondo Ucraino visualmente rimosso.
L’Ucraina e la Russia non ci sono nel video della Rea Film, ma si pretenderebbe che l’assimilazione simbolica dei due amanti ne facesse le veci.
Ci chiediamo in che modo, se il cammino dei diritti LGBITQ+ in terra russa è storia di violenta repressione, culminata con l’allucinante reprimenda del Patriarca Kirill, dove l’equiparazione tra occidente e grandi parate Gay, ha alimentato una delle giustificazioni della chiesa Ortodossa per benedire il massacro in corso.
E dove sono le tracce del percorso ucraino che ha portato durante questi mesi alla petizione per spingere verso il disegno di legge sul matrimonio egualitario, cercando di colmare un vuoto legislativo che nel contesto bellico ha moltiplicato i pericoli per la comunità LGBITQ+?
Senza pretendere da un prodotto del genere un approfondimento capillare, crediamo che ricorrere a forme narrative simboliche liberate da tutti gli ostacoli del reale, sposti intenzioni e risultati in una dimensione idealistico-spiritualista molto vicina alle astrazioni del pacifismo coevo.
Ci viene in mente a questo proposito il bel video del britannico Greg Davenport diretto per i Frightned Rabbit nel 2016 e interamente girato a Kyiv. In Get out, l’amore tra due donne si esprime attraverso l’unione e la collisione danzante dei corpi, come in Borderless. Ma a differenza del video della Rea Film, Davenport li immerge in modo vivo al centro del patrimonio architettonico della città, contrapponendo un punto di rottura alla fissità monumentale dello spazio immaginato dall’ideologia sovietica.
In Get Out quindi si mette in gioco una relazione tra corpi e ambiente, facendo reagire la dimensione simbolica con quella di una viva esperienza urbana, incluse le stratificazioni storiche che questa incorpora. In Borderless si cancella l’Ucraina, si elimina il desolante paesaggio di rovine plasmato dalla violenza russa, si fa finta che Roma e Rieti siano la stessa cosa e si cuce addosso alle immagini dei corpi un significato intercambiabile.
Sfortunatamente non si tratta di un Western girato in Almerìa per ragioni economiche e con le migliori idee dell’ingegno italico che fu, questo perché le sofferenze del popolo ucraino non sono intercambiabili, né si può raccontare un’ipotetica storia di diserzione russa in questo modo, collocandola nel solco di una romanticizzazione che di romantico non ha niente. Se per romantico ci rifacciamo alla definizione di Novalis come sguardo qualitativo sul mondo, dobbiamo ricordare che questo include l’idea di senso, indissolubile da quella di responsabilità.
E se Denys riceve gli anelli dei genitori presumibilmente morti nella penombra della sua casa di Kharkiv nel maggio 2022, poco prima di riattivare una dimensione della memoria amorosa proprio in uno spazio contiguo, grazie ad un’ellissi temporale tanto superficiale quanto rischiosa, gioverà ricordare che quel calendario per la città e la regione Ucraina indica un mese tragico, dove tra varie atrocità, la Casa della Cultura di Dergachiv, sede del centro umanitario, veniva rasa al suolo dall’artiglieria russa.
Fa quindi un certo effetto questo uso delle indicazioni di tempo che scandiscono la vicenda, perché sembrano provenire da un mondo parallelo dove le date non hanno alcuna relazione con la Storia, proprio quella sulla quale gli autori del video vorrebbero appoggiarsi.
Alla base, la promozione della neonata Rea Film, società di servizi audiovisivi che si colloca in vari ambiti, dall’advertising alla comunicazione video, fino al noleggio di attrezzature per la produzione. E non manca niente da questo punto di vista, neanche il product placement per il brand di una nota serie di pianoforti a coda, uno dei quali viene suonato da Gorgoni alla fine del video, epicamente collocato su un ampio terrazzo con vista urbana, durante le fasi del crepuscolo.
Da quel punto di vista privilegiato, che ci riconduce alla centralità del performer nei videoclip tradizionali, chissà se si poteva immaginare meglio la sofferenza di un popolo.
Perché alla fine, Borderless probabilmente rispetta la mission della Rea Film: realizzare numerosi prodotti “in stile” cinematografico. L’impostazione, comune a numerose case di produzione cresciute come funghi negli ultimi quindici anni, per evidenti ragioni alimentari assimila le forme della comunicazione integrata tra web e audiovisivo e mette in un solo calderone, sapientemente o meno, l’advertising, la promozione virale e il linguaggio cinematografico.
Non è quindi peregrino associare il risultato di Borderless alle strategie di product placement, non solo per il noto pianoforte di cui parlavamo, ma anche per le modalità con cui alcuni ingredienti del video, vengono combinati con la stilizzazione necessaria per veicolare un prodotto dell’ingegno che ambisce ad una diffusione virale, sfruttando keywords più o meno appetibili.
Ciò che stride non sono quindi le scelte estetiche e il linguaggio utilizzato, che soggettivamente non ci interessano né ci piacciono, ma il contesto politico internazionale su cui fanno leva, con una semplificazione talmente imbarazzante da diventare offensiva.
Per chi vuole, Borderless si vede da questa parte.