lunedì, Dicembre 23, 2024

Bowler Hat soup e la generazione perduta di Kiran Leonard

Kiran Leonard è un diciasettenne di Manchester, polistrumentista, si produce la propria musica e la diffonde attraverso social network e directories di condivisione. Se ne comincia a parlare, quasi esclusivamente attraverso la blogosfera anglofona che si spacca in due tra il riconoscimento di un prodigio dalle incredibili possibilità e il disinnesco di una bufala virale. Buona parte del materiale inciso da Kiran viene raccolto all’interno di un album autoprodotto intitolato Bowler Hat soup prima disponibile per il download libero attraverso il suo soundcloud, poi acquisito dalla Hand of Glory che il 26 agosto del 2013 ha ufficialmente diffuso per la vendita un lotto di vinili limitato a 300 copie.

La biografia che viene diffusa a mezzo stampa la scrive Kiran stesso, con quel misto di cazzonaggine, fastidio, insicurezza e auto-celebrazione che è tipica della sua età, ma allo stesso tempo con un’onestà che potrebbe indicare la via a molti musicisti con qualche anno in più sulle spalle: “Preferisco scrivere da solo la mia storia per paura che qualcuno lo debba fare per me

Kiran racconta del suo odio per Edward Elgar, obbligato ad ascoltarlo e scuola, e di quanto ami i Mothers of Invention quando citano la Planets Suite dello stesso Elgar. Ci dice che ha passato due anni ad imparare e suonare il piano per il suo album e che insieme a quello ha utilizzato altri 22 strumenti, incluso un radiatore e la sua voce; ma non ha controllato tutto, per esempio per gli archi e gli ottoni ha dovuto rivolgersi ad alcuni amici, perchè non era in grado di farcela da solo. Si è fatto ispirare da artisti come Mothers of Invention, Sufjan Stevens, Deerhoof, Albert Ayler, the Residents, Krzysztof Penderecki, the Beach Boys, Don Caballero, Godspeed You! Black Emperor e Adrian Belew. Dal vivo, non potendo ripetere la complessità di Bowler Hat soup, deve affidarsi comunque al sostegno di suo fratello e di tre amici, scarnificando il suono e rendendo le sue canzoni diverse da come appaiono su disco, più minimali, percussive e sperimentali.

Bowler Hat Soup è in effetti un piccolo sorprendente lavoro, magmatico nelle intenzioni, crediamo sia necessario ridimensionarlo nell’ambito di quella furia giovanile che porta con se intuizioni fresche e fulminanti in egual misura ad un’auto indulgenza che non conosce senso della misura, aspetto che forse, in questo momento a Kiran non interessa; certamente si è guardato bene dall’assecondare alcune inclinazioni tenendo fuori la “grandeur” di The End Times, un brano di 24 minuti che circolava in streaming fino ad un anno fa, ancora reperibile in rete ma che non fa parte della raccolta pubblicata dalla Hand of Glory, i cui brani non superano di media i tre minuti, tranne un paio di episodi che si spingono oltre i cinque.

La prima cosa da fare è liberarsi dal peso dell’età, se i 17 anni di Kiran sono sicuramente un fastidio per il musicista di Manchester, lo sono anche per noi che altrimenti dovremmo scriverne con un filtro ingombrante davanti agli occhi, basterà dire che il limite anagrafico, se c’è, si sente proprio attraverso la voce di Kiran, molto incerta, non formata del tutto, ma allo stesso tempo interessante perchè appare per quello che è, senza particolari  trucchi a modificarne il risultato.

Il pop del nostro è invece molto interessante, succede effettivamente di tutto, anche se la base del songwriting, per metà album, è di stampo pianistico, quasi un sostegno costante da destrutturare via via con incursioni effettivamente Zappiane, si prenda un brano come Wind Walks, fatto di continui deturnamenti, e con una vena prog-jazz molto sottile che ricorda i suoni di Hot Rats, oppure la filastrocca di Bora Bora che non è lontana dalle ammucchiate vocali dei Mothers e andando avanti l’elettronica primitiva di Geraldo’s Farm forse l’episodio più derivativo in tal senso, considerata la sua natura quasi interamente strumentale.

Quello che emerge per quanto riguarda questa prima analisi, è comunque una concisione e un controllo del brano assoluto, con l’intenzione di mantenere intatta la forma di un weird pop d’impatto. L’altro aspetto che complica le cose in una direzione ancor più stimolante, è la vena folk di Kiran Leonard, Brunswik St, Port Aine, Sea of Eyes e Smilin’ Mom declinano tutte in questa direzione, e si tratta praticamente delle prime tracce dell’album; inutile secondo noi cercare per forza qualcosa a cui agganciarsi, anche se a tratti sembra di ascoltare la ricchezza timbrica del Sufjan Stevens che su basi minimali arricchisce “l’orchestra” a dismisura, il risultato qui è molto più selvatico, rozzo, sferragliante, sia per l’effettivo limite tecnico legato alla qualità della registrazione, ma anche per un’intenzionalità viscerale che si contrappone con violenza alla complessità della scrittura.

Poi a sorpresa, l’album finisce con un brano come A purpose, davvero molto bello, suonato su un Reed, un organo americano del 1898 e cantato da Kiran con vero trasporto, tanto da ricondurre il suo folksinging dalle parti di Rufus Wainwright: I saw youths take substance / smashing our shelters / a lost generation.

Auguriamo Kiran di non perdersi, noi non vediamo l’ora di ascoltare nuovi sviluppi.

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Stefano Bardetti
Stefano Bardetti
Stefano Bardetti, classe 1974, ascolta musica dai tempi appena precedenti al traumatico passaggio da Vinile a CD; non ha mai assimilato il colpo e per questo ne paga le conseguenze.
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