Prima che diventasse centrale il dibattito relativo alla produzione di contenuti basati su modelli di apprendimento profondo, Brian Eno aveva già sviluppato e messo in pratica i principi della musica generativa, perfezionando lungo tutta la sua carriera la relazione tra sistema e casualità, tanto da spostare progressivamente la centralità dell’autore verso quei confini occupati dalla programmazione. Più della dimensione performativa, è l’organizzazione dei frammenti nello spazio potenzialmente infinito della durata a determinare la qualità dell’esperienza, finalmente libera di accogliere la percezione soggettiva dell’ascoltatore con un alto grado di indeterminazione.
The ship, ventiseiesimo album del compositore inglese e quinto pubblicato per Warp Records nel 2016, veniva accompagnato da un film prodotto insieme al laboratorio giapponese Dentsu Lab, con l’ausilio dell’Intelligenza Artificiale. Veicolato attraverso un sito specifico non più attivo, elaborava il dialogo tra aurale e visuale che da Mistaken Memories of Mediaeval Manhattan, ha rappresentato uno snodo fondamentale di questa relazione attiva con il fruitore, nella creazione di sistemi generativi non lineari all’interno dell’opera complessa di Brian Eno. In questo caso, il sistema di apprendimento della macchina, poteva nutrirsi di un largo patrimonio storico-fotografico, in correlazione con un feed di news, la cui convergenza doveva creare una memoria collettiva dell’umanità. Era l’interazione con gli spettatori a determinare tutte le possibili fessure nel sistema cognitivo della macchina, così da generare l’inaspettato attraverso l’ingresso determinante della componente umana.
Ships, lo spettacolo dal vivo commissionato da La Biennale Di Venezia andato in scena oggi alle 15 e alle 20 in prima mondiale al Teatro La Fenice, parte da questi stessi presupposti, per condurre la musica di Eno in una direzione emozionale più intensa rispetto all’interattività ricercata con la videopittura, le installazioni e i prodotti transmediali. Oltre ai collaboratori più importanti che figuravano nell’album del 2016, c’è la filarmonica Baltic Sea diretta da Kristjan Järvi, che supera i quaranta elementi. Eno li coordina insieme alla voce aggiuntiva di Peter Serafinowicz, le tastiere del polistrumentista Peter Chilvers e le chitarre di Leo Abrahams.
Nel lavoro a cui lo spettacolo si ispira, la tensione tra voci e struttura, non risolve mai verso la forma canzone, preferendo l’idea di riflesso, di interferenza, di stratificazione aurale e temporale. Anche quando chiude con una versione di “I’m set free” dei The Velvet Underground, ricordandoci il minimalismo timbrico che la informa più dei riferimenti spectoriani e trasformandola in un’elegia della liberazione dalla materia.
Eno stesso ha definito i contributi vocali di quel disco come personaggi evanescenti che emergono e si dissolvono in un paesaggio dai contorni sfumati. Lo sfondo conserva le caratteristiche di alcuni scenari storico-politici, dall’inabissamento del Titanic al secondo conflitto mondiale, ma sono elementi simbolici lasciati alle possibilità combinatorie di chi ascolta.
Per questa versione orchestrale, il cui spirito era già alluso dalla morfologia elettroacustica dell’intero progetto, Eno ha espresso il desiderio di separarsi dall’idea di partitura, per condurre i musicisti in uno spazio di condivisione emozionale.
L’elemento acquatico, che unisce l’ensemble di Järvi alle risonanze modali di The Ship, acquisisce una nuova vita e investe l’intero teatro veneziano con le onde da cui emergiamo, per poi trascinarci senza timore verso il fondo.
Un movimento che attraversa tutta la discografia del musicista inglese, da You don’t miss your water a Backwater, giusto per citare un paio di episodi dove ricorre il termine, e che nell’anelito verso il silenzio e il riflesso, intercettano la vita attraverso un processo ciclico, rifuggendo qualsiasi principio “balistico”, per riconoscere l’amore come “un raggio segreto dello sguardo”.
Sul palco l’orchestra che conta più di 45 elementi segue il movimento delle onde, rompendo le righe della disposizione classica. Tutti in piedi e mobili rispetto alla centralità di Kristjan Järvi, officiante di un culto che ricorda la prassi della musica gospel, tanto da stabilire frequentemente un ponte tra orchestrali e pubblico, a cui si rivolge spesso, quasi per lanciare gli elementi materici del suono come oggetti da custodire.
Brian Eno rimane fisso in una posizione elevata, alla destra di Leo Abrahams. Il suo coordinamento passa attraverso sottili manipolazioni elettroacustiche, field recordings di voci stratificate e provenienti da distanze e collocazioni spaziotemporali diverse.
Sorprende davvero la riscrittura di The Ship con i suoni della Baltic Sea Orchestra. Se l’esplosione di un assetto che imitava un grande ensemble era già presente nell’album, lo spostamento verso la dimensione organica del suono è in questo caso totalizzante. Viene recuperata la relazione del suono con gli elementi della natura che ne hanno ispirato la sostanza, spostando il centro percettivo dell’imprevisto che si verificava con la sovrapposizione di suoni irriconoscibili.
È un ambient quasi primigenio quello andato in scena sul palco de La Fenice, con una straordinaria potenza orchestrale, libera come altre forme del Jazz, da Bill Evans ai Talk Talk degli ultimi due album.
Il timing di The Ship è più o meno rigoroso e rispetta le stesse durate, ma cambia radicalmente l’approccio, quasi si trattasse di una traduzione vitale e sensoriale dei principi generativi che sottendono il lavoro di Eno.
La sua voce, filtrata dal vocoder oppure emersa con quella chiarezza cristallina che sembra immutata nel tempo, introduce una seconda parte apparentemente radicata nella forma canzone.
Ed è “I’m set free”, la cover dei Velvet che già chiudeva The Ship, ad aprirsi verso mondi sonori che al posto del linguaggio descrittivo, scelgono la ripetizione, il flusso, la morfologia del cambiamento attraverso l’osservazione delle onde.
Ecco che “By this River”, riconoscibilissima, sembra ancora più chiara dentro la rappresentazione palindroma del tempo, dove le sponde da cui ci osserviamo appartengono a due dimensioni temporali diverse.
“Who gives a thought” e “And then so clear”, trasformano l’orchestra del mar Baltico in una versione espansa della Penguin Cafè Orchestra. Il volume del suono è considerevolmente più potente, ma la materia armonica è davvero molto simile, con quella ricerca di ritmi apolidi e di contaminazioni transnazionali che hanno caratterizzato una parte della carriera produttiva di Eno.
La ricerca di una comunicatività più intensa, capace di rileggere l’esperienza ambient avvicinandola alle sue origini organiche è il cuore di tutto lo show.
E la narrazione è quella dei movimenti apparenti, del moto ondoso che ritorna alla sorgente, dell’osservazione di una natura che ci contiene e ci suggerisce una relazione sempre più stretta tra esterno e interno.
In questi termini crediamo non sia affatto casuale la scelta dei brani da “By this River” in poi, dove il mondo psichico soggettivo muta progressivamente fino agli epifenomeni più sottili e alle particelle subatomiche. Osservazione costante della natura, ma anche inabissamento della componente umana nel tutto.
Ci si commuove davvero rispetto a questa successione, perché comunica attraverso un linguaggio pre-formale, che nell’apparente chiarezza delle parole, rivela con i suoni la scomparsa dell’ego.
La strumentale “Making Garden out of Silence” precede una splendida chiusura con “There Were Bells”, dove alla fine procediamo tutti nella stessa direzione.
[Le foto dell’articolo sono tratte da Ships di Brian Eno con la Baltic Sea Philarmonic diretta da Kristjan Järvi (prima assoluta, commissione La Biennale di Venezia) – Courtesy La Biennale di Venezia, scatti di Andrea Avezzù ]