giovedì, Novembre 21, 2024

Brigitta Munterdorf, Orbit – A War Series – Biennale Musica 2023: recensione

Orbit - A war Series, l'opera commissionata dalla Biennale Musica 2023 a Brigitta Munterdorf parte dalla soppressione violenta dei corpi femminili. Con un insieme di illusioni scenotecniche e con la forza combinatoria di voci e suoni scagliati nello spazio, disegna il nostro tra ascolto e visione, di fronte a soggetti brutalmente privati di Storia e Identità.

La ri-concettualizzazione dell’Opera, nel lavoro di Brigitta Munterdorf, passa anche da un processo identitario. La combinazione tra elettronica, cori, modellazione 3D e design illuminotecnico, smembra e ricostruisce la riconoscibilità dei soggetti rappresentati, per rilanciare altri significati in un’estrema spazializzazione del suono.

Orbit – A war Series, il lavoro commissionato dalla Biennale Musica 2023 diretta da Lucia Ronchetti e andato in scena il 22 Ottobre al Teatro alle Tese III, è anche una riflessione sulla spettralità della coscienza, sospesa tra memoria e ricombinazione simulacrale.

Il punto di partenza è la soppressione violenta dei corpi, lo stupro e la violenza contro le donne, strumenti transnazionali di guerra e potere, architettati per spezzare tutti i legami originari.
I materiali narrativi utilizzati dalla compositrice austro-tedesca sono costituiti da alcuni testi clonati con l’Intelligenza Artificiale, field recordings, testimonianze registrate, rumori sospesi tra il mondo organico e quello digitale, tutti convergenti nella creazione di una techno-orchestra, la cui sostanza ritmica viene determinata dalla trasformazione e dalla sintesi elettronica.

Ma è il modo in cui lo spazio viene concepito a determinare una disperata ricerca di senso.
Si entra in una dimensione sospesa tra la realtà mondana e quella rappresentativa, dove uno speaker posizionato su stativo, viene inglobato nel cono di luce generato da uno spot direzionale.

Tutti in cerchio ascoltiamo la voce di Christina Lamb, una delle più importanti corrispondenti di guerra dall’Afghanistan e dal Pakistan, mentre descrive la logica razionale e spietata dello stupro come arma bellica. Dai ratti della Grecia antica, già oggetto di studio per Giselda Pollock nel suo Differencing the Canon, passando per le donne tedesche stuprate dai soldati sovietici durante la liberazione di Berlino, fino alle atrocità in Bielorussia, nei campi di internamento dello Xinjiang e per mano delle milizie di Boko Haram, il prologo descrive un’ineluttabile geografia della violenza moltiplicata dalla pluralità di variazioni digitali desunte dalla voce principale.

Nella stilizzazione estrema di quel totem che osserviamo muti, cercando di percepire le sfumature di un suono che diventa sempre più immateriale e sconnesso dal referente umano, il gelo di un canto funebre ci attraversa.

L’ambiente successivo è un vero e proprio limbo. Sospesi nella sostanza lattiginosa e amniotica di un fumo denso, non è possibile scorgere i confini se non per i numerosi pouf disposti simmetricamente e che ci accoglieranno seduti. La scena, intesa come centro della rappresentazione, sono gli spettatori stessi, circondati da improvvisi eventi luminosi che cambiano forma e direzione insieme al fumo e da fenomeni aurali che percorrono un anello fatto da molteplici diffusori, disposti tutt’intorno.

Le voci corrono in cerchio, dislocate nello spazio circolare, disegnando un confine fatto di rumore e suono. Field recordings e cloni si alternano, complicando la percezione e le origini del parlato.
Se da una parte il frammento testimoniale continua a documentare la fiera delle atrocità contro i corpi femminili, dall’altra emerge una successione corale costruita con l’ausilio dell’IA.

Il processo di oggettificazione che lo stupro innesca, libera allora artefatti mostruosi in cerca di una collocazione identitaria. Al di là della comprensione del testo e del riferimento diretto al trauma che diventa voce e alla voce che diventa oggetto, è proprio la scansione spaziale che stabilisce la loro aura fantasmatica.

Dove siamo allora, in una zona di guerra, mentre luci e fenomeni sonori suggeriscono più volte bombardamenti in corso? Oppure in un luogo di passaggio tra la vita e la morte, che ha perso totalmente il fascino dei racconti gotici, per diventare una terribile danza macabra?

Le voci strappate dalle loro identità, si ricombinano in una sequenza musicale. Alternativamente vengono in mente la ricerca sui fonemi di Laurie Anderson, il rimario di Meredith Monk, se assegniamo alle due artiste l’introduzione di uno slancio post-umano. Ma è la trasformazione successiva a rivelare la sostanza artificiale della sequenza. Questa viene organizzata in una techno ad alta intensità, che non suggerisce l’atto della danza, ma la perdita di coordinate, dove la contrazione e la dilatazione dei BPM diventa a poco a poco viaggio Kosmische.

Si rimane attoniti di fronte a questa scomposizione sintetica del suono che procede insieme alla cancellazione di ogni atto creativo. Quella di Orbit allora è una cosmogonia rovesciata: risucchiati nel vortice della violenza che ha cancellato tutti i soggetti femminili, la vita può essere riprodotta solo da una moltiplicazione di simulacri mobili in uno spazio pre-formale occupato da eccedenze.

La pratica dell’ascolto, indirizzata a tutti noi, diventa l’unica in grado di contestualizzare questa esplosione degli elementi sonori.

Si vedono alcuni spettatori piangere, altri atterriti, una parte annichilita dalla violenta sequenza di luci stroboscopiche.

Alcuni, completamente dentro la relazione tra suono e design spaziale, chiudono gli occhi e attivano nuovamente la visione in un’arena dove è stata volutamente bandita.

Brigitta Munterdorf realizza un’opera sorprendente, capace di scuoterci e metterci al centro di una riflessione dolorosa sul corpo e la formazione identitaria. Lo fa con un insieme di illusioni scenotecniche e con la forza combinatoria di voci e suoni scagliati nello spazio.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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