Quando nel dicembre del 2010 Bonnie “Prince” Billy suona a sorpresa al Discoteca di Chattanooga, un piccolo locale nella città del Tennesee, si porta dietro una nuova band chiamata The Babblers; tra di loro una certa Angela Babbler, che mettendo a dura prova la tenuta delle sue corde vocali, esegue una versione incendiaria di “Sweetheart”, cover da un album di Kevin Coyne e Dagmar Krause pubblicato nel 1979 e intitolato “Babble“. È la prima di una serie di collaborazioni che Angel Olsen condividerà con Oldham, alla vigilia della sua prima pubblicazione nel 2011, un Ep originariamente stampato in edizione limitata su audiocassetta e ancora reperibile in versione 12 pollici su Bathetic Records; “Strange Cacti” conteneva sei tracce registrate in forma casalinga, chitarra e voce, molto riverbero e un talento vocale duttile e non comune che già rivelava la capacità della songwriter originaria di St. Louis nel trasformare la tradizione in un racconto limpido, originale e potente. La conferma arriva con il primo full lenght pubblicato l’anno successivo sempre su Bathetic; “Half Way Home” continuava sulla strada intrapresa, mantenendo l’impostazione acustica di quell’esordio sconosciuto ed esplorando un range più ampio di influenze, dal folk, al rhytm and blues, passando dal country, senza rinunciare, in termini di scrittura, al “melò” di Roy Orbison e al pop di Lennon-McCartney, pur mantenendo costante l’impostazione minimale degli arrangiamenti, affidati ad una batteria leggerissima, un contrabbasso, la chitarra della Olsen e qualche lieve incursione elettrica. Ma quello che sorprende maggiormente è la voce della musicista stanziata a Chicago, da molti descritta come una versione femminile di quella di Oldham nell’improvviso superamento di tutti i limiti della gamma, nel passaggio tra potenza e commozione, limpidezza e lamento, questa modifica la stessa scrittura legandola quindi al racconto di una tradizione affrontato in modo non citazionistico ma sinceramente sincretico, riuscendo a mantenere una forte impronta personale mentre osserva e recupera con precisione la classicità di Orbison e Patsy Cline, il Jazzin’ di Joni Mitchell, il folktelling più dolente di Sibylle Baier e quello più contaminato dei Fairport Convention.
Il 18 febbraio del 2014, Angel Olsen pubblicherà il suo secondo full lenght su JagJaguwar; “Burn your fire for No Witness” viene anticipato da due singoli, “Hi-five” e “Forgiven/forgotten“, quest’ultimo accompagnato da un bellissimo video ispirato dal “Freaks and Geeks” prodotto da Judd Apatow e girato in 16 mm da Zia Anger, autrice di splendidi videoritratti al femminile (i video per Jenny Hval, Julianna Barwick, Water Liars) e che aveva già lavorato per la Olsen producendo due clip per la promozione del precedente “Half Way Home”.
In quel video, la disillusione e il distacco che la Olsen racconta attraverso le liriche, diventa l’immagine di un “grattage” sulla pellicola, graffio che cancella l’immagine di un amante da dimenticare; fuoco dolente ma assolutamente fiero che accompagna con un suono potentissimo e (quasi) del tutto inedito per la Olsen l’andamento di “Forgiven/forgotten“
Entrambi i brani quindi annunciano un cambiamento radicale nelle scelte della Olsen, che pur mantenendo un legame di continuità con la sua scrittura, sceglie una strada dal forte impatto elettrico, satura e rumorosa, potente e discordante, adattata perfettamente alle progressioni della sua voce, in quell’improvviso impennarsi delle note più alte ai limiti con la rottura. Introdotto da “Unfucktheworld”, tetra ballad minimale a bassissima definizione, dove la voce “lirica” della Olsen emerge dall’impasto ovattato della registrazione per poi diventare più chiara negli ultimi cinquanta secondi, “Burn your fire for No Witness” si trascina su un potente impianto Southern (Hi-Five, High & Wild, Lights Out) e mantiene dei forti legami con certo folk psichedelico, già anticipato da una traccia come “Sweet dreams”, contenuta nel singolo di Sleepwalker, e vera e propria prova generale di questa nuova uscita per JagJaguwar; ma allo stesso tempo recupera la forza spontanea di certo rock anni ’90 (Forgiven/Forgotten, Stars) senza per questo modificare la ricca architettura melodica che caratterizzava il precedente album; si prenda come esempio un brano come “Stars”, forse la traccia più ispirata dell’intero album, capace di sprigionare grande potenza drammatica e di sfruttare la propensione della Olsen per il “crescendo”, con un’elettricità dirompente e full range. Difficile allora parlare di una direzione nuova nel songwriting di Angel Olsen, che rimanendo lo stesso, ricchissimo racconto contemporaneo sulle tracce di una lunga tradizione, ha trovato una forma più completa e dialettica per esprimersi.