Ci ha messo sei anni C.W. Stoneking per mettere insieme il suo nuovo album, seguito ideale dell’acclamato Jungle Blues dal quale desume lo stesso scenario, inserendo la parola Jungle in due tracce del nuovo album e sopratutto riferendosi ad un genere come il boogaloo, fusione tra la musica afroamericana popolare e i ritmi Cubani, una veracità fuori dal tempo che il nostro cerca di restituire per tutte le dodici tracce dell’album, registrate live in due giorni senza nessun tipo di overdubs e infilando due microfoni in un Ampex 351 dopo aver posizionato la band in studio in modo da ottenere un suono il più possibile vicino a certe registrazioni live degli anni ’50.
Il set è costituito da batteria, contrabbasso, la chitarra amplificata di C.W. e quattro vocalist sgangherate. Il suono chitarristico a differenza dei lavori precedenti è affidato ad una Fender Jazzmaster, con quel suono così amato dai surf rockers fine cinquanta e che C.W. rende ancora più sferragliante, quasi si trattasse di un Marc Ribot essenziale e primitivo.
Le radici sono sempre quelle: blues, ragtime, gospel, boogie, calypso, rock’n’roll primordiale, folk delirante e sudicio reso apparentemente più morbido dalle vocalist che al repertorio in stile del nostro oppongono un contrappunto quasi twee pop. È come sentire un Tom Waits meno mefitico e più sgangherato cimentarsi con il repertorio di Tenneesee Ernie Ford, Sam Cooke e le Shirelles per contaminarlo con le forme più sudicie della tradizione Americana. L’australiano C.W. Stoneking in questo senso sembra più interessato a mantenere un contatto con alcuni elementi della parte aborigena invece di fare il dandy come nel caso del canadese Timber Timbre, molto più furbo e modaiolo, nonostante i due rovistino nella stessa coltura brodosa.
Gon’ boogaloo passa dalla forma spoken di How long, atterra sul gospel danzereccio di Get on the floor, giunge alla forma tra jive e pop spectoriano di Good luck charm per poi giocare con il trascinante e sbertucciato Jangle della title track.
Il blues di C.W. Stoneking si complica, va avanti, procede sulla stessa strada sporca e incompromissoria delle origini ma osa contaminare più generi in quello che probabilmente è il suo album più bello, vivo e divertente.