Suona come l’attacco di un’intimidazione già dal titolo ed è così che suona sin dall’apertura di Ain’t No Grave, che su un tessuto di fratture ritmiche, approccia il blues depravato ed asperrimo della Bozulich. Nociva come una pioggia di locuste; urticante, velenosa e dura come un sasso, torna con un album a proprio nome ad otto anni da Evangelista (il disco) e dopo l’esperienza con Evangelista (la band), trascinando in un deserto di echi sinistri, depravazione e lascivia. Lo spettro sonoro (con lo stigma Constellation) abbracciato, dice di tutto lo scibile sin’ora affrontato dalla cantautrice, riportato però ad un dimensione (molto relativamente) più pop, più comunicativa: la disperante ricerca d’amore di chi pare non faccia altro che respingere tutti da sé.
C’è l’abrasività del primo Nick Cave con o senza i Birthday Party e, ancora di più, la ferocia uterina di Lydia Lunch, nelle corde della signora. Blues, quindi. Un blues sporco e feroce che carezza con la cartavetro (come nella succitata Ain’t Grave o nelle sospensioni notturne di Danceland, dov’è tutto un sovrapporsi di ringhi trattenuti, voci sdoppiate e quarti di ritornello smozzicati); che prende di petto e trascina in lancinanti abissi industrial (One Hard Man, che riporta tanto alle aggressioni Foetus/Lunch quanto ai Pain Teens) ma che poi, in virtù di un arrangiamento d’archi puntuale come l’arrivo del treno in C’era Una Volta Il West, diventa vecchia America di confine al crepuscolo, col cuore a pezzi e la rabbia allo stomaco (Drowned To The Light). Ed ancora Don’t Follow Me disorienta, tra placide terzine e bordoni d’organo e Gonna Stop Killing strugge, essendo il lamento da grazia smarrita di frontiera che nessun Calexico è mai riuscito a comporre. Mentre Lazy Crossbones si riconcilia con se stessa, scegliendo di poggiare su un arrangiamento più tenue, dal passo lounge deforme (con tanto di screziature di piano elettrico) non fosse per le chitarre grattate e gli arresti carichi di tensione statica che frenano ogni possibile linearità. Mentre Number X chiude il disco a mo’ di elegia funebre, con un vuoto di note e sibili lontani che pian piano lasciano la voce nuda a dialogare coi suoi fantasmi. In luogo così intimo ed ispido, nel quale i soli Andrea Belfi (Rosolina Mar) ed il sodale da lunga data John Eichenseer hanno avuto spazio. Il resto del mondo assista all’epifanica dissoluzione attentamente ma, sia chiaro, a debita distanza: ci si può far male.