venerdì, Novembre 22, 2024

Caterina Palazzi, Eretica Jazz nella mente del Sudoku Killer: l’intervista

“Jazz snob eat shit” urla John Zorn fra le grida lacerate del suo sassofono, in un pezzo che sembra uscito più dal grind dei Napalm Death che dal contesto jazz. Un piccolo tornado di pochi secondi scandito dalla furia iconoclasta di chi si scaglia contro una barriera critica convenzionale, alimentata da ascolti e spesso da musicisti che si immaginano la dimora del “vero” Jazz come l’unica possibile roccaforte per un genere ormai diventato tale: immobile tra standard e riproposizioni pedisseque.

Ma il territorio artistico ormai anche in Italia è profondamente segnato da continui sommovimenti che abbattono questi limiti naturali e artificiali, evidenziando fortunatamente l’instabilità “territoriale” e combinatoria del Jazz: si flirta con l’elettronica, si consolida la relazione con il metal, si esce insomma dall’ostilità dello standard per ritrovare intensità e vitalità.

Gli abitanti di questo colorato universo sono molto eterogenei; mettono in musica la loro intima personalità e allo stesso tempo sono accomunati dalla libertà che la sperimentazione gli offre. Junkfood, Hobocombo, Zzolchestra, Macelleria Mobile di Mezzanotte, Tom Moto e naturalmente i seminali Zu.

In mezzo a questa cosmopoli, si sono fatti strada anche i Caterina Palazzi Sudoku Killer, agguerritissimo quartetto in giro da diversi anni ma ufficialmente sulle scene a partire dal 2010, anno del primo disco intitolato “Sudoku Killer” e pubblicato a nome Caterina Palazzi Quartet. Proprio a partire da quell’album la band ha immediatamente dimostrato le possibilità combinatorie della proposta, arrivando a posizionarsi al terzo posto tra le migliori formazioni per il Jazzit Award 2010, premio che ha conferito alla stessa Palazzi i titoli di prima miglior compositrice Jazz e quinta migliore contrabbassista italiana.

Alla guida quindi un’amazzone come la Palazzi, con un basso battezzato “Vlad Tepes” al posto della faretra da fianco e capace di trainare l’evoluzione di un suono al di là dei confini immaginabili. “Infanticide”, pubblicato nel 2015 da Auand Songs / Goodfellas forza i margini in modo ancora più esplicito, ricollegandosi ad “Incesticide” dei Nirvana e adottando lo stesso Kurt Cobain come guida immaginaria lungo tutti i pezzi dell’album. Alla logica matematica del Sudoku si contrappone uno spirito allucinatorio, alimentato dallo stesso sforzo cognitivo che cerca di penetrare la struttura enigmatica del gioco giapponese. L’aspetto razionale è definito dalle forme più “math” dell’ordito musicale grazie anche all’apporto chitarristico del notevole Giacomo Ancillotto, mitigato dalla fumosità Jazz del sax suonato da Antonio Raia che con poche note dipinge atmosfere in contrasto e più ammalianti. Sul versante ritmico la batteria di Maurizio Chiavaro sottolinea la forma libera del prog-rock esaltandone il dinamismo e i continui cambi di tempo. Ma è il groove inesorabile del contrabbasso suonato da Caterina Palzzi ad esaltare l’insieme: mai in secondo piano, il suo incedere incessante si ritaglia uno spazio peculiare nella musica del quartetto.

Melodie e piccoli fraseggi rendono snelle le composizioni nonostante il loro elevato minutaggio (eccezion fatta per “Nurikabe) e si arriva alla fine del disco senza neanche accorgersene ma con la voglia di ascoltarlo ancora, grazie anche al lavoro di scrittura che dalla creatività individuale si trasforma nel suono permeabile e in continua mutazione di un ensamble, anima essenziale del Jazz più libero e creativo.

“Infanticide” è un disco di ottima musica, adatto a chi non si lascia intimorire dalla possibilità di far coesistere Coltrane con i Fugazi ma anche gli Area con i Nirvana. Del jazz qui si riprendono certe atmosfere ma soprattutto lo spirito libero da qualsiasi categorizzazione. 

Caterina Palazzi Sudoku Killer – Infanticide – Teaser

Il tuo primo album, “Sudoku Killer”, è stato inciso sotto il nome Caterina Palazzi Quartet, mentre “Infanticide” sotto quello di Caterina Palazzi Sudoku Killer. Oltre al cambio di concept, anche quello del nome: come mai?

Visto che all’epoca della sua fondazione il gruppo è nato in maniera improvvisa, gli avevamo dato quel nome senza starci a pensare più di tanto. La parola “quartet” si usa spesso nelle formazioni di jazz classico e siccome prima suonavamo maggiormente orientati verso quello stile ci era sembrato che potesse andare bene. Successivamente abbiamo deciso di togliere quella parola e di affiancare al mio nome, che spero di poter eliminare del tutto in futuro, quello che era il titolo del primo disco, “Sudoku Killer” appunto, in modo da dare un significato più specifico al progetto. La musica che facciamo si avvicina indubbiamente di più alle parole “Sudoku Killer” anziché “quartet” e suonando sia in contesti jazz ma anche in quelli vicini al rock, abbiamo notato che non sarebbe stata una buona idea per il pubblico mantenere il vecchio nome.

Fra il primo disco e “Infanticide” le differenze sono notevoli: il tuo ultimo album sembra attraversato spesso da ombre, da continui contrasti fra luce e oscurità. L’atmosfera richiama quasi quella di un film noir. Oltre all’inserimento di Antonio Raia (Sax Tenore), quali sono le principali differenze in termini di scrittura ed anche attitudinali fra i due lavori ?

In una maniera più generale, si può dire che il primo disco contiene sonorità molto più vicine al jazz rispetto al nuovo, e visto che i pezzi li ho composti personalmente, era un primo tentativo di mettermi alla prova e ricercare me stessa attraverso la scrittura dei pezzi. Proprio per questo “Sudoku Killer” suona più manieristico rispetto a “Infanticide” che musicalmente è più sincero e spontaneo. A livello emotivo è come se con il nuovo album fossi riuscita a trovare il mio percorso, che in ogni caso potrebbe cambiare di nuovo, ma che al momento è l’unico che mi consente di mettere dei punti fermi a ciò che più mi piace in termini musicali. L’ultimo lavoro è molto più contaminato tanto che ormai definirci un gruppo jazz risulta limitato: per certi versi la nostra musica è accostabile più a certe forme del rock strumentale. L’altra grande differenza fra i due lavori è che mentre “Sudoku Killer” è nato durante una mia personale fase jazz, prendendo spunto dagli ascolti del momento, con “Infanticide” ho preso tutto ciò che è sempre stato dentro di me a partire proprio dagli ascolti che ho fatto da adolescente. E’ per questo che ho deciso di dedicarlo ai Nirvana, non perché ci somigli musicalmente, ma per dare il giusto peso a quella parte della mia vita così importante: ciò che ascolti da adolescente non ti mollerà più ed è importante ascoltare le cose giuste in quel periodo perché è probabile che dopo ritorneranno.

La musica di “Infanticide” è stata inserita nel filone jazzistico, anche in modo forzato. L’influenza si sente molto ma non ritengo sia esclusiva; il Jazz sembra  più uno spunto e un’influenza che convive con altre. Forse hanno maggior peso il punk e ancora di più il prog rock come quello degli Area…

Me l’hanno detto spesso ma a dire la verità il prog l’ho ascoltato pochissimo. In particolare mi hanno consigliato di ascoltare i King Crimson, dicendo che qualcosa della loro musica sarebbe rintracciabile nella nostra. In ogni caso, mi piace tantissimo il fatto che si possa accostare ciò che suoniamo a un tipo di musica che non conosco. E’ molto bello quando ti dicono che assomigli a quello o a quell’altro quando in realtà tutto ciò non è stato assolutamente voluto.

caterina-palazzi

Che ruolo ha per te l’improvvisazione ? In che misura interviene nella tua musica?

Le parti di pura improvvisazione sono poche e mai totalmente libere. Per come le intendo io, sono come dei colori che intervengono a caratterizzare ancora di più determinate situazioni musicali, ma sempre attraverso delle direttive. Anche se la nostra musica è strumentale, è sempre ben presente una trama sotterranea e quindi le parti improvvisate presenti in un pezzo servono a delineare un particolare stato d’animo, a volte in maniera libera ma a volte anche secondo le indicazioni della scrittura. In sala prove io porto già le parti per come devono essere lette ed eseguite. Lungo questo processo di esecuzione preliminare in un dato momento decido di inserire una parte improvvisata che non c’è sulla pagina, ma pur sempre finalizzata a creare una certa atmosfera o scena. Giusto per fare un esempio, nel prossimo disco che sarà basato sui cattivi della Disney potrebbe esserci una parte in cui c’è la necessità di rappresentare una strega: bene, per sottolineare questa “scena” potremmo decidere di farla improvvisata ma sarà la “scena” stessa a guidare la nostra improvvisazione. Rispetto al primo disco, dove c’era il tema e tutto il resto era improvvisato, le parti di pura improvvisazione sono minori. In questa fase della mia vita sono molto più legata all’idea della canzone e mi ha anche un po’ annoiato ascoltare cose che si basano troppo sull’improvvisazione. A mio avviso, l’idea che la creatività sia legata solo a questo aspetto è sbagliata: si può anche lavorare sul suono, cosa che abbiamo incominciato a fare sempre di più. Nelle parti improvvisate su “Infanticide” non si sentono dei veri e propri assoli  ma c’è soprattutto la ricerca di un particolare suono che può provenire dalla chitarra che distorce, dal sax che urla e così via.

 

Quanto ha influito la figura di Kurt Cobain sul tuo percorso musicale? Cercando di non considerare il gossip che ha costruito la mitografia sul personaggio, pensi che la semplicità, la schiettezza e lo spirito da “eterno adolescente” che lo caratterizzavano siano stati di ispirazione per la musica di “Infanticide”?

E’ difficile rispondere. Quello che mi ha colpito la prima volta che ho ascoltato Kurt Cobain è stato il modo di trasmettere la sua sofferenza in una maniera per niente velata. Quando si ascolta la sua voce, in particolare quando urla, vengono i brividi per l’angoscia, ma in senso positivo perché è una bellissima sensazione. La sua musica non si può ascoltare mantenendo il sorriso sulle labbra poiché non c’è serenità in essa, e questa cosa mi è talmente entrata dentro che a un certo punto ho sentito di doverla esternare a modo mio. Ciò che di lui mi ha sicuramente ispirato è lo stato emotivo: quello che percepivo dentro di me ascoltando i Nirvana ho voluto rivisitarlo e trasmetterlo attraverso la mia musica. Il tributo, quindi, è puramente emotivo mentre di musicale è presente ben poco, a partire dalla metà dell’ultimo pezzo ci sono solo delle citazioni di alcune frasi dei Nirvana come “Love Buzz” fatta col contrabbasso, sono un po’ difficili da individuare se uno non sta attento e non le conosce bene. Questi piccoli rimandi alle loro canzoni sono l’unico tributo a livello musicale, il resto è principalmente emotivo.

“Nurikabe” sembra occupare quella specifica posizione nell’album per spezzare in due la tracklist. E’ la composizione più breve, quasi una piccola parentesi che permette un po’ di respiro dopo le qualità immersive degli altri brani. Qual è il senso di questo pezzo nell’insieme del disco?

“Infanticide” è composto da quattro suite violente e un pezzo corto più soft che sta esattamente a metà del disco perché anche l’orecchio dell’ascoltatore ha bisogno di una pausa ma sempre senza dimenticare l’angoscia, che anche in “Nurikabe” viene comunicata in forma differente. Il significato di questa parola giapponese è “muro invisibile”: descrive quei rari ma angosciosi momenti in cui ti senti diverso da tutti gli altri e questo, invece di essere una forza, diventa un peso. E’ quel muro che non si vede ma che esiste, frapponendosi fra te e il resto del mondo e di cui ne ho fatto esperienza personale trasformandolo in qualcosa di positivo. Il pezzo dura meno rispetto agli altri perché per fortuna i momenti in cui questa diversità si manifesta come un peso sono brevi; una volta passati, alla fine sei contento di essere così come sei. Inoltre, suonando dal vivo tutta la scaletta di “Infanticide” così com’è su disco ci siamo accorti che funziona davvero bene anche con un pezzo così particolare come “Nurikabe” a fare da spartiacque.

Senza nulla togliere agli altri tuoi compagni, l’apporto alla chitarra di Giacomo Ancillotto fa davvero la differenza nel sound complessivo di “Infanticide”: il suo modo di suonare intreccia jazz, noise e schitarrate frenetiche dal sapore punk. E’ lo strumento più anarchico dei quattro. Era ciò che volevate ottenere scrivendo i suoi arrangiamenti? Come vedi il suo ruolo?

Tutto ciò che hai detto lo penso anch’io. Il gruppo in realtà è una famiglia e noi ci vediamo più in questa maniera. Tranne il sassofonista che è subentrato da poco, gli altri due strumentisti che suonano con me (N.d.a. oltre ad Ancillotto alla chitarra c’è Maurizio Chiavaro alla batteria) li conosco da otto anni e hanno contribuito a creare il progetto con me; non sono assolutamente dei turnisti. In questo senso anche se sui dischi si legge il mio nome e quella che scrive i pezzi è Caterina il nostro è un gruppo vero e proprio. Se la band ha questo suono è appunto grazie allo stile di Giacomo che non è né jazz né rock ma sicuramente una via di mezzo. Oltre ad una sintesi di molteplici influenze ciò che riesce ad ottenere sono poche note ma tanto suono. E’ questo ciò che mi interessa e quello che volevamo ottenere lavorando sui suoni, invece di uno sterile virtuosismo che non sarebbe servito a nulla.

Caterina Palazzi
Caterina Palazzi

Ascoltando ripetutamente “Infanticide” l’accostamento musicale che più di tutti mi è venuto spontaneo è quello con un altro disco uscito un anno fa, di una band anch’essa romana e sempre strumentale: “TRAMA!” dei Juggernaut. Anche se loro partono da una base chiaramente metal, sia la tua musica che la loro sono collegate da due aspetti fondamentali: l’imprinting prog nelle canzoni e l’aspetto cinematografico, come se ogni frammento costituisse la successione di sequenze di un film immaginario.  Hai mai pensato di utilizzare qualche tua composizione per un film?

Conosco i Juggernaut e anche se ho ascoltato poco di loro sono d’accordo su questa similitudine. Anche noi siamo molto cinematografici, la nostra musica è un po’ come un viaggio e sia su disco che dal vivo è possibile ricrearsi delle immagini nella propria testa. Lavoro molto per immagini e quindi la natura cinematografica della mia musica esce in maniera molto naturale, quasi senza accorgermene. Quando dicevo che tutti i pezzi hanno una trama intendevo proprio che ognuno di essi ha una storia da raccontare, proprio come in un film. Quando ci dicono che evoca delle immagini significa che siamo riusciti nell’intento e questo mi fa molto piacere. Proprio per questi motivi se mi chiedessero di scrivere una colonna sonora indubbiamente ci proverei, se capitasse coglierei l’opportunità ma adesso non andrei volontariamente incontro ad un obiettivo di questo tipo. Oltretutto l’aspetto live della musica è per me molto importante e se non suonassi dal vivo le mie colonne sonore ne sarei molto insoddisfatta.

A dare questa connotazione cinematografica all’insieme del progetto Sudoku Killer contribuisce anche l’idea di indicare il concept di un disco col titolo dell’album che lo precede. Si viene a creare allora un’unica grande saga, dove voi siete i protagonisti e la sceneggiatura cambia in base all’atmosfera della musica. Come ti è venuta in mente questa idea?

Semplicemente è avvenuto in maniera del tutto casuale. Subito dopo aver registrato il primo album a nome “Caterina Palazzi Quartet” stavamo ancora cercando un titolo adatto da dargli. Nel frattempo scrissi il brano “Sudoku Killer”, ovvero la traccia d’apertura di “Infanticide”. L’unione delle due parole “Sudoku Killer” ci piacque talmente tanto da decidere per quel nome anche in relazione al nostro esordio; ci trovammo quindi involontariamente nella situazione di anticipare col titolo del disco il concept di quello successivo. Ci siamo allora detti che avremmo mantenuto questa cosa anche per gli album futuri, infatti il nome di “Infanticide” richiama il tema del terzo, così come questo richiamerà il quarto e così via. Ho tutto quanto nella mia testa e per ora non cambio idea.

Maurizio Chiavaro
Maurizio Chiavaro

Parlando sempre di concept, il prossimo album come ci hai anticipato sarà incentrato sui cattivi dei film prodotti dalla Disney. Fino a che punto svilupperai l’idea di questa progressiva crescita del soggetto che da bambino si scontra col mondo, conosce il male e perde la sua innocenza? Dove vuoi farla arrivare? Hai già un tuo piano in mente ben strutturato o procedi di volta in volta a seconda dei lavori che affronti?

“Infanticide” parte principalmente dall’idea che a un certo punto della nostra vita il fanciullo che ci ha accompagnato per un certo periodo della nostra vita muore perché inizia a crescere. In realtà però da qui il discorso si apre e diventa duplice. Da un lato abbiamo la parte emotivamente caotica nella forma dell’angoscia come dicevamo a proposito di Kurt Cobain e non ancora pienamente cosciente di sé simboleggiata dal bambino, dall’altro invece troviamo quella più costruita e follemente strutturata come dimostrano la lunghezza dei pezzi, i tempi dispari e l’aspetto matematico delle composizioni. Questa caratteristica matematica è per me ugualmente importante perché la ritengo altamente irrazionale e mi affascina per il modo in cui riesce ad essere astrazione e follia insieme. Ecco perché nel booklet del disco ci sono le radiografie dei cervelli, è la mente che si sforza enormemente per risolvere i sudoku. L’elemento irrazionale c’è anche qui ed è ciò che accompagna l’ipotetico soggetto nel viaggio lungo i nostri album. Leggere “Infanticide” da un solo punto di vista  risulterebbe limitante, non bisogna dimenticare che se il gruppo si chiama Sudoku Killer è per sottolineare sempre l’aspetto irregolare e folle che diamo alla nostra musica. Il prossimo disco sarà un ulteriore passo in avanti, visto che il bambino è stato ormai abbandonato e l’adulto farà uscire la parte più cinica e disillusa, subendo sempre di più la fascinazione del male. Si tratta di un processo di crescita perenne e nel quarto disco si continuerà con questa evoluzione.

Questo gioco basato sulla duplicità è molto interessante e offre una dimensione nuova a tutto il disco. Cercare di immergersi nell’aspetto folle e irrazionale rappresentato dalla matematica porta probabilmente al cuore dell’opera, che non è soprattutto la perdita della fanciullezza, ma qualcosa di molto più complesso e sfaccettato.

Di certo il disco non si basa solamente sull’idea del passaggio all’età adulta. Questa c’è, è molto presente ma viene poi sfaccettata e declinata tramite l’aspetto della follia e della irrazionalità di una mente adulta. I titoli delle canzoni sono nomi di alcune varianti del sudoku che secondo me è un gioco totalmente folle nella sua semplicità. Esemplare è la traccia d’apertura, descrive l’andamento di un cervello che cerca di risolvere un enigma matematico. L’urlo che si sente all’inizio è lo sprint iniziale che questo cervello compie nel massimo sforzo necessario per buttare giù i primi numeri; successivamente c’è uno stacco in cui ci si ferma per pensare a come continuare e poi si passa ad un’altra parte più schizofrenica che descrive l’intuizione improvvisa che porta magari a scrivere molti numeri tutti insieme; il pezzo si conclude poi con una parte in cui ci si accorge in che mondo alienante ma nello stesso tempo meraviglioso ci aveva condotto il sudoku. Tutto ciò descrive l’andamento di un cervello che ragiona. Purtroppo queste cose sono passate un po’ in secondo piano a causa del titolo molto forte che inevitabilmente attira l’attenzione. In ogni caso, queste sfumature sono ugualmente importanti.

Curiosità: visto che il tuo primo album era ispirato alla letteratura, come avresti chiamato il disco che lo avrebbe preceduto e che quindi avrebbe anticipato il concept di “Sudoku Killer”? Ti è mai venuto in mente di registrarlo in futuro in modo da poter chiudere così il cerchio?

Mi piace questa idea, non ci avevo mai pensato! Però sarebbe l’ultimo visto che si ricollega al primo disco… dovrei scriverlo in punto di morte! Abbiamo altri cinquant’anni per pensare al titolo, però è una bella idea e la terrò in mente.

Antonio Raia
Antonio Raia

Parliamo dei vostri concerti: cosa cercate di trasmettere durante i live? Ritieni che l’aspetto più diretto e “punk” della vostra musica esca maggiormente fuori?

La nostra è una musica molto carica emotivamente, dal vivo siamo sicuramente più violenti rispetto ai dischi. Nei posti più soft e raccolti tendiamo però a dare precedenza a sonorità più acustiche. Questa è un’altra caratteristica della nostra musica, è così varia che riusciamo ad adattarla bene o male a molte situazioni. La gente si stupisce del fatto che riusciamo a fare settanta date l’anno ma il motivo è molto semplice, perché possiamo portare ciò che suoniamo nel locale rock, nel circolo ARCI, nel festival jazz e in molte altre situazioni anche più ibride. Tenendo più piedi in una scarpa riusciamo a suonare in più posti anche molto diversi fra loro. Il nostro suono rimane quello ma poi a seconda dei luoghi lo si gestisce in maniera via via differente. Di sicuro ora ci troviamo più a nostro agio dove possiamo tirare su con i volumi; le cose semi acustiche che ci piacevano sino a qualche anno fa ormai ci stanno strette e preferiamo posti dove il suono arrivi bene all’ascoltare affinchè questo possa esserne avvolto completamente. Ci capita comunque di suonare anche in luoghi dove è necessario adattarsi a suoni un po’ più semi acustici e quindi abbassiamo il volume e suoniamo anche in maniera differente.

Com’è suonare un certo tipo di musica così sperimentale in Italia? E quali sono secondo te le differenze che trovi con l’estero?

A questa domanda ti risponderei meglio fra qualche mese, considerato che finora abbiamo suonato soprattutto in Italia e all’estero abbiamo avuto solo qualche data sporadica. Daremo inizio ad un road tour in giro per la Germania, Austria, Polonia e Cecoslovacchia a novembre e dicembre e successivamente ad aprile e maggio. Una cosa che ho notato è che i locali esteri rispondono alle mail e si ascoltano il materiale, e per fortuna spesso piace. In Italia i posti dove è possibile far suonare un certo tipo di musica più eclettica sono di difficile catalogazione e secondo me includono i circoli ARCI, molto numerosi e alcuni anche molto grandi. Ci troviamo bene anche nei centri sociali. I jazz club invece sono i locali dove ci troviamo malissimo: non voglio generalizzare ma nella nostra esperienza la maggior parte sono gestiti da gente mentalmente chiusa, non appena dici loro che usiamo la distorsione ad esempio, non ci fanno suonare etichettandoci come “rumorosi”. Molti di questi direttori artistici si basano solo sulla descrizione del sound senza neanche degnarsi di andare ad ascoltare effettivamente che cosa si vuole proporre; non funziona così e non stai facendo bene il tuo lavoro di direttore artistico di un locale. Mi dispiace dirlo ma i posti dove si suona jazz in Italia sono molto meno aperti a differenza di tanti locali rock e jazz club all’estero che invece non sono prevenuti. In Italia hanno avuto il coraggio di non farci suonare per via del titolo del disco, perché secondo loro “i bambini non si toccano”.

Giacomo Ancillotto
Giacomo Ancillotto

Hanno detto davvero così?

Con i bambini non bisogna scherzarci”: questa è stata una delle risposte. Peccato però che io non parlo di bambini morti nel disco… o ancora, mi è stato detto che a causa del titolo la gente si sarebbe potuta spaventare. “Infanticide” è stato censurato addirittura su iTunes per le prime due settimane dall’uscita su disco, quando invece le due versioni dovevano essere pubblicate insieme. All’estero non abbiamo avuto problemi di questo tipo e nessuno ha fatto storie sul nome dell’album. Qui al contrario non si ha la curiosità di scoprire cose nuove e di capire qual è il messaggio di un artista.

In Italia sembra persistere una certa discriminazione nell’ambito Jazzistico per quanto riguarda il ruolo di una donna rispetto alle qualità performative, perché ad eccezione della voce o al limite del piano, il basso la batteria o qualsiasi altro strumento generano forme di pregiudizio non così esplicite ma assolutamente presenti. Tu sei la dimostrazione che le cose possono andare in maniera diversa, suonando fra l’altro una musica che è a cavallo di più generi. Qual è stato il percorso personale che ti ha portato verso certe sonorità? E come mai hai scelto proprio il contrabbasso?

Nasco come chitarrista all’età di tredici anni continuando a suonare questo strumento sino ai ventidue anni, e già da adolescente scrivevo pezzi miei. In ogni caso l’interesse verso il basso l’ho sempre avuto solo che prima di avvicinarmi a questo strumento sono passata prima dalla chitarra grazie a mio padre che strimpellava a casa e all’ascolto dei Roling Stones che all’epoca mi piacevano moltissimo. Più passava il tempo però e più avvertivo una mancanza di feeling fra me e la chitarra. Ho continuato a suonarla perché nel frattempo avevo iniziato a fare concerti e non mi andava di buttare tutto all’aria. Alla fine sono approdata al jazz iniziando a suonarlo sempre da chitarrista con i soliti standard ma intorno ai ventidue anni finalmente l’ho mollata e mi sono dedicata al contrabbasso. Per me il jazz, principalmente quello classico, è dominato dalla figura del contrabbasso. Il basso elettrico è meraviglioso ma non è la stessa cosa rispetto al contrabbasso se si vuole suonare in ambito jazzistico. Se sono approdata a questo strumento è grazie agli ascolti che facevo all’epoca (ad esempio Mingus) che semplicemente dal punto di vista ritmico-armonico presupponevano il contrabbasso. E comunque, secondo me è meraviglioso perché non è semplicemente uno strumento musicale ma un essere umano. Ti ci leghi fisicamente visto che è uno strumento imponente a differenza del basso elettrico e della chitarra. Il mio ha addirittura un nome, Vlad, ovvero l’imperatore rumeno Vlad Tepes detto l’Impalatore da cui ci si è ispirati per la creazione mitopoietica del conte Dracula. I vampiri sono l’altra mia grande passione insieme al sudoku e se aggiungiamo anche il fatto che il mio contrabbasso è stato costruito in Transilvania allora si capisce che era inevitabile chiamarlo proprio così.

John Zorn alza il dito medio e dice: “Jazz snob eat shit”. Sei d’accordo con lui?

Per me Zorn è un mito e amo tantissimo quel pezzo, ha un titolo azzeccatissimo che può descrivere quello che dicevamo della scena jazz italiana. Quindi si, sono assolutamente d’accordo con lui.

Carlo Cantisani
Carlo Cantisani
Carlo Cantisani si occupa di musica estrema in tutte le sue declinazioni. Doom, avant, sperimentale, stoner, psych. Oltre che per indie-eye scrive per altre realtà di settore e suona il basso. Laureato a Pisa, sua città di residenza, in discipline umanistiche, prosegue gli studi magistrali in campo filosofico e antropologico.

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