(La foto di copertina è di Ayumi Hase)
Charo Galura non si ferma alle apparenze e va oltre. La giovane musicista fiorentina, oltre al suo lavoro con l’immagine condotto con sorprendente coerenza attraverso la posizione più difficile, quella di chi sta davanti all’obiettivo fotografico, ha portato avanti in questi anni una serie di progetti con al centro un rigoroso comun denominatore, quello del blues radicale contaminato con il linguaggio dell’elettronica. Dopo progetti come Noise Gate, Twin Blues, Lux Departure e Black Lemmings, “Life Through Apocalypse” è il suo primo EP solista pubblicato per Jupiter Music.
Charo Galura, Life Through Apocalypse, streaming e download
Coadiuvata dal talento Davide Mazzantini (chitarra) e Ray Wallen (armonica e voce), entrambi attivi nella scena musicale londinese, scrive musica e testi e sopratutto eleva la qualità della sua voce a quella di uno strumento, come è stato per le interpreti degli anni ’90, da Ursula Rucker, Shara Nelson, Tina Dico, fino a Martina Topley Bird, di cui si dichiara appassionata.
Sarebbe comunque un errore fermarsi alle suggestioni del trip-hop, perché se “Life Through Apocalypse” si fa ispirare dai momenti migliori di quella stagione, questo accade attraverso una diversa intensità e anche una maggiore stratificazione rispetto ai modelli, di matrice non solo anglofona.
Tra i suoi ascolti ci sono i primi King Crimson, con tutte le conseguenze che quella formazione comporta, come acquisizione di un territorio espressivo contaminato e aperto verso mille direzioni, dal Jazz fino alla world music.
“Life Through Apocalypse” è un suggestivo lavoro di contrasti, a partire dal titolo e colpisce anche per i riferimenti, probabilmente inconsci, a quelle ibridazioni che nella seconda metà degli anni ottanta si interrogavano sui confini della percezione identitaria.
È sicuramente troppo presto per dirlo, ma sembra che l’immagine di Charo Galura, per come è veicolata anche attraverso il bel video di Marco Della Fonte, girato per il singolo “Oh Lover“, confonda abilmente la relazione tra animato e inanimato, mettendo al centro la voce come corpo e viceversa, distribuendo il nuovo artefatto attraverso fotografie, canzoni e videomaking, senza che in alcun modo questi media rappresentino un corpo organico originario.
Attraverso segmenti di un’espressione e di una creatività complessa, ma dalla forte immediatezza comunicativa, quello di Charo-Galura è un hypercorpo astratto che emana un calore non dissimile dalla Debbie Harry più coraggiosa, quando nel contesto urbano introduceva motivi ed elementi ritualistico-esoterici.
La loop station, uno dei dispositivi più utilizzati negli ultimi anni e in svariate direzioni (da Julia Kent fino alla nostra Femina Ridens), diventa l’agente di questa proficua con-fusione tra voce e simulacro, presenza e assenza.
Prima di entrare nel vivo della tua musica, volevo chiederti il motivo di un titolo così forte: “Life Through Apocalypse”
Con “Life Through Apocalypse” volevo suggerire una sorta di lettura positiva della parte più oscura dell’esistenza. È vero, è un titolo forte, probabilmente anche perché si tratta di un ossimoro: nessuno penserebbe a una “vita” attraverso/all’interno dell’apocalisse.[pullquote]Grazie alla musica ho ritrovato la mia dimensione e ampiezza di vita[/pullquote] Invece per me l’apocalisse è uno stadio che riscopre la gioia di vivere all’interno di un contesto fortemente negativo. Si tratta di un concept che vede la sua origine nel tema della ciclicità dell’I Ching, un libro dell’antica Cina che ho da poco scoperto e che ogni tanto consulto essendo fonte incommensurabile di saggezza. Secondo questo libro la mutevolezza della vita è governata da schemi archetipici e per cui, in parole più semplici, l’apocalisse è uno stadio che fa parte del ciclo esistenziale. Ammetto inoltre che il titolo è un po’ autobiografico.
Ho passato un periodo poco felice qualche anno fa e alcuni di questi pezzi sono nati proprio in questa circostanza. Grazie alla musica ho ritrovato la mia dimensione e ampiezza di vita.
Non solo, è anche una specie di critica al mondo di oggi. A volte ho l’impressione che i valori vengano sbandierati senza cognizione di causa, come se qualcuno li servisse in un piatto d’argento e dicesse “Eccoti qua un valore, adesso combatti per quello perché è giusto così”. I cosiddetti “guerrieri da tastiera”, quando non si ha alcuna conoscenza al riguardo di una specifica tematica, e magari della sofferenza o delle lotte vere che sono state fatte. Dell’ “Apocalypse” appunto.
Come nasce l’esperienza di Charo-Galura Cantante, puoi raccontarci i tuoi esordi prima di entrare in produzione con il tuo EP?
Il blues è il background musicale da cui provengo. Canto da sempre questo genere, che ho sviluppato soprattutto a Londra, dove ho trovato un’accoglienza più calorosa rispetto all’Italia e dove ho avuto delle belle collaborazioni. Parallelamente al blues, ho avuto e ho tuttora in corso, collaborazioni con altri progetti che vanno dal trip hop, per passare all’electro-rock di stampo jazz e arrivare all’electro-pop. I Black Lemmings, duo electro-pop, sono il side project più importante a cui sto lavorando, con cui – lo anticipo – presto uscirò con brani nuovi.
In concomitanza con tutti questi progetti, ho sempre covato l’idea di svilupparne uno solista, di mettere nero su bianco le mie idee. Nel 2015 decisi di iscrivermi al Rock Contest di Controradio: volevo capire come sarebbe stata accolta la mia musica fuori dalla mia cameretta. Con sorpresa mi dissero che ero stata selezionata per le eliminatorie e con maggiore stupore mi ritrovai in semifinale. Per me quello era già un gran successo. E da lì, piano piano…
Hai lavorato con Emanuele Braca, già noto per il suo lavoro con i Velvet Score, gli Hacienda, Orelle e gli Hero-Shima, ci racconti la storia produttiva del disco?
Lo scorso anno ho vinto il concorso regionale di Toscana 100 Band. Ho partecipato chiedendo il finanziamento di un EP, oltre che la sua stampa e la realizzazione di un videoclip. Fra gli studi di registrazione convenzionati con Toscana 100 Band c’era proprio il Folsom Prison Studio di cui Emanuele Braca fa parte. Ho conosciuto Emanuele al Rock Contest, dove faceva il fonico e mi sono trovata bene fin da subito. Con lui avevo scambiato qualche chiacchiera interessante riguardo alla musica. Mi ricordo che parlammo per esempio di Martina Topley Bird, cosa che mi aveva colpito molto, perché è un’artista che adoro, bravissima e poco conosciuta (n.d.a. Voce storica del Trip-hop britannico, con quattro album solisti all’attivo e numerose collaborazioni, dagli inizi con Tricky fino ai Massive Attack di Heligoland) . Inoltre ho sempre guardato con ammirazione ad alcuni dei progetti per cui ha lavorato, come Orelle. Per questo appena ho letto il nome dello studio, mi sono messa subito in contatto, convinta che sarebbe venuto un ottimo lavoro. E così è stato. Lavorare insieme è stato abbastanza facile, nonostante il poco tempo, perché appunto già ci conoscevamo. Emanuele si è occupato della produzione e in “Tulip” ha apportato un contributo ulteriore suonando il basso e delle percussioni.
E il contributo del chitarrista Davide Mazzantini?
Davide è il mio compagno di avventure da ben 10 anni. Con lui ho anche un duo rootsy/downhome blues chiamato Twin Blues, ma al momento siamo un po’ fermi perché lui vive a Londra, dove lavora proprio come musicista specializzato nel suddetto genere. Musicalmente ci troviamo molto bene insieme e per questo mio primo EP ho chiesto la sua partecipazione. Lui in realtà non era convinto del proprio coinvolgimento nel progetto, ha accettato il mio invito ma è stato molto dubbioso fino alla fine. Pensava che aggiungere una chitarra a pezzi formati di sole voci avrebbe in qualche modo rovinato il mio mood e la mia idea. Ed invece ha dovuto ricredersi dopo aver sentito il risultato finale. Credo che, almeno in questa fase, nessuno avrebbe potuto fare lavoro migliore e io ne sono stata convinta fin dalle prime prove in sala. Quello che cercavo era proprio una chitarra blueseggiante, ma che come me portasse con sé anche qualche altro tipo di influenza, come il rock, il progressive. Una chitarra comunque non troppo invadente, che riuscisse ad arricchire i miei pezzi in maniera complementare. In “Oh Lover” ha fatto un lavoro fantastico: il pattern riproduce quel senso fluttuante già dato dalle voci e il solo sembra rispondere a ciò che ho cantato prima. In “Life, Apocalypse & Rewind” invece riproduce quel senso di mantra proprio del pezzo, per poi esplodere in una psichedelia finale. “Falling Trees” invece è un brano improvvisato in studio su un loop di drone vocale e credo che lì si possa sentire la sintonia musicale instaurata.
Il disco è stato registrato oltre che da Braca da un’altra colonna della Black Candy Records, Lorenzo Buzzigoli. Uscirai nel loro roster oppure in una dimensione totalmente autoprodotta?
Anche Lorenzo l’ho conosciuto in occasione del Rock Contest come fonico e mi sono trovata molto bene anche con lui, sia a livello lavorativo che umano.
Non uscirò con la Black Candy, ma con Jupiter Music, un’etichetta americana nuova che si occupa principalmente di musica per il cinema. La Jupiter ha trovato la mia musica particolarmente cinematografica e mi ha chiesto di entrare a far parte del loro roster. Sono la prima artista in realtà, ma la cosa mi rende felice perché il cinema è un’altra mia passione. Se non facessi la musicista, mi butterei sicuramente sulla regia.
Nel duetto di “Tulip” è presente anche Ray Wallen, già con Davide Mazzantini nel duo blues che insieme condividono. La tua musica respira quell’ambito ma lo trasfigura completamente, come sei arrivata alla definizione di questo suono, tra blues radicale ed elettronica?
Per quanto mi riguarda, fare musica significa passare dal linguaggio del blues, la base e l’origine di tutto. Poi negli anni mi sono ritrovata ad affrontare generi diversi, come appunto l’elettronica, che generalmente di black non hanno assolutamente niente. Io stessa ho ascolti diversi che col blues non c’entrano affatto. Ad esempio il mio album preferito in assoluto è “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson: il blues non c’è, ma si respira ugualmente un senso profondo di umanità. [pullquote]fare musica significa passare dal linguaggio del blues, la base e l’origine di tutto[/pullquote] Ecco, quel che voglio trasmettere è umanità. Per quanto riguarda l’elettronica, ciò è dato semplicemente dall’uso di un vocal processor, quindi effetti sulla voce e loop. Non definirei la mia musica propriamente blues, ma piuttosto “bluesy”, nel senso che è fortemente influenzata da quel genere. Per quanto riguarda Ray, lui è un cantante blues che con me condivide l’ascolto di diversi generi. Ho da poco scoperto che da giovane cantava in un gruppo punk! Credo proprio sia per questo che in studio, insieme a Davide, si sia creata un’alchimia perfetta.
L’Asia sembra influenzare parte della tua musica, soprattutto per il modo in cui i modi del blues e della musica orientale si incontrano. Puoi dirci qualcosa in più su questa contaminazione?
Onestamente non conosco nulla della musica orientale, anzi direi che sono proprio lontana da quel mondo. Ma questa tua osservazione è curiosa e significa che in qualche modo la mia musica non è definibile entro i confini di un dato genere. E’ una cosa che ha i suoi pro e i suoi contro, e probabilmente più contro in questa fase visto che le etichette fanno sempre comodo per farsi conoscere quando si è agli inizi. Tornando all’Asia, probabilmente devo aver sentito qualche motivetto o canzone in radio o in tv o anche un film di Bollywood e mi è rimasto a livello inconscio. La contaminazione in questo senso, non è del tutto da escludere. Se ti riferisci in particolare a “Oh Lover”, Ray dice che il loop vocale gli ricorda molto la musica indiana. E’ un’osservazione che non mi sarei mai aspettata, anche perché se dovessi parlare di cosa invece suggerisce a me quel loop, penserei ai cori r’n’b degli anni ’90, che effettivamente sono fra i miei ascolti da bambina. Trovo sempre comunque interessante sentire le interpretazioni che vengono date ai miei brani.
Charo Galura – Life Through Apocalypse su Spotify
Questa ibridazione è presente anche a livello visivo nella clip di “Oh Lover” diretta da Marco Della Fonte, puoi raccontarci le fasi di questa collaborazione e il modo in cui siete arrivati all’idea del video?
Se per influenze orientali ti riferisci agli abiti, anche qui la cosa non è assolutamente ricercata. Più che ad un look collocabile geograficamente, cercavo qualcosa di simbolico.
L’idea di Marco Della Fonte era quella di ricreare un viaggio nell’inconscio, in cui situazioni normali e quotidiane sono al limite dell’incubo. Protagoniste di queste situazioni sono delle maschere, tributo all’illustratore Saul Steinberg, e che sono metafora dei mostri dell’inconscio. Io ricopro invece diversi ruoli all’interno del video e si tratta di una mia scelta. Con l’abito nero rappresento una sorta di dea della morte, algida e distaccata anche nella “narrazione” delle lyrics. Mentre con l’abito bianco interpreto una sorta di moderna ti bon ange, il piccolo angelo della religione vudù che migra dal corpo durante i sogni. Poi ho un vestito a fiori, più romantico, dove sembra che io abbia appena pianto: lì voglio comunicare la fragilità dell’essere umano. Ed infine c’è la scena finale, in corrispondenza del Reprise del brano. Si tratta dell’unica scena che ho pensato personalmente, dato che il regista aveva escluso la possibilità di un’interazione con le maschere. Ho voluto che queste mi afferrassero, anche con violenza, mentre continuo a cantare senza mostrare segni di debolezza. Una sorta di metafora del “superuomo” nietzschiano.
Il mio look (outfit e trucco) è stato curato da Ester Santacroce, che ha sapientemente interpretato le mie idee. Una menzione speciale va al “cappellaio” Alessandro Mengozzi, designer con cui avevo già collaborato per uno shooting anni fa e che ho voluto in tutti i modi coinvolgere.
Rispetto al Trip Hop degli anni novanta, che già tentava la strada combinatoria tra elettrico e inorganico, la tua musica è molto meno legata al soul di quanto non lo fosse la “rebirth of cool” britannica. L’essenzialità del blues ti porta verso territori legati alla musica di ricerca, sia in termini vocali che strumentali. Sei d’accordo e puoi dirci in termini generali quali sono i tuoi obiettivi artistici in questo senso?
Col blues condivido l’essenzialità ma anche la spontaneità. Ho anche altre influenze nei miei ascolti, come molto progressive. Non so se definire la mia musica “di ricerca” sia corretto, alla fine faccio semplicemente quello che mi viene da fare. Ad esempio, mi sento molto lontana da quel filone musicale contemporaneo che vuole sperimentare a tutti i costi, a volte a livelli eccessivi, da non farti capire il senso dell’intero pezzo, dove inizia e dove finisce e senza consentirti di ricordare una singola nota. [pullquote]per me musica è creare mondi, sogni, dialoghi. Faccio musica per me[/pullquote] Se devo dire qualcosa, voglio farlo in maniera più diretta. Per me la musica non è un insieme di note da mettere insieme, in maniera più o meno magistrale. È altro, è creare mondi, sogni, sensazioni, dialoghi. Faccio musica per me, per creare il mio mondo o anche per esorcizzare i miei pensieri negativi. Penso che sia normale, che sia una cosa umana. Ed è nel fare una cosa così umana che secondo me si creano connessioni con l’ascoltatore.
Quali sono gli elementi strumentali che caratterizzano la tua musica, oltre alla voce e alla chitarra?
In realtà la mia musica è caratterizzata principalmente dalla voce. La chitarra è un elemento secondario e complementare, senza cui un pezzo riesce benissimo a reggersi in piedi. Come nel caso dell’armonica suonata da Ray Wallen in “Oh Lover” ad esempio. Arricchiscono le melodie, non fanno parte dell’armonia propriamente detta di un pezzo, amplificano semplicemente l’ambiente e il mood che voglio creare. Chissà, magari nel mio prossimo lavoro posso aggiungere nuovi strumenti o cambiarli totalmente.
Tu suoni qualche strumento nel disco?
Mi limito alla voce e a qualche percussione.
E in termini di scrittura, come si sviluppa un pezzo di Charo Galura, nasce principalmente dal tuo lavoro sulla voce?
Anche la composizione dei miei pezzi è molto spontanea. Mi piace prendere in mano la loop station e giocare con la voce creando mood vari, a seconda delle situazioni. Poi piano piano costruisco una melodia, pensando a cosa vorrei raccontare. Quando sono particolarmente ispirata, la stesura dei pezzi è abbastanza veloce, anche perché solitamente l’idea originale è quella vincente. E’ una cosa comunque rara, dato che ho il computer pieno di loop vocali e idee ancora work in progress. [pullquote]La voce viene a volte sottovalutata, ed invece è uno strumento di grande potere espressivo[/pullquote] Però se penso a cosa ho nel mio database mi viene da sorridere: ho la Charo sbruffona, arrabbiata, dolce, malinconica, rassicurante. Insomma un catalogo di sensazioni che nel momento in cui ho registrato, volevo esprimere. La voce viene a volte sottovalutata, ed invece è uno strumento di grande potere espressivo. Penso sia lo strumento più sincero perché fa esattamente parte di ognuno di noi, del proprio corpo. Il canto è un bisogno primordiale, basti pensare ai canti dei neri ai tempi della schiavitù in America, non c’è niente di più vero e sincero.
Dal vivo cosa cambia rispetto all’approccio da studio, l’elettronica mantiene uno spazio importante?
Ho fatto pochissime esibizioni dal vivo finora, anche perché il mio tipo di musica ha bisogno di contesti e ambienti particolari. Finora mi sono sempre esibita da sola in una dimensione minimal: io e la mia loop station. Non escludo la presenza degli altri musicisti in futuro, quando è possibile, ma anche in tal caso la presenza elettronica del vocal processor rimane.
Dopo questo Ep cosa hai in programma?
Vorrei fare un vero e proprio album, ho già qualche idea che bolle in pentola. Poi altri progetti che non voglio svelare per scaramanzia. Ma per ora voglio concentrarmi sulla promozione di questo mio primo lavoro.