Brian Oblivion e Madeline Follin sono diventate due star per caso, quasi senza volerlo. O forse visto il nome di battaglia che si sono scelti potremmo pensare che fosse tutto pianificato. Fatto sta che Brian e Madeline a creare una band insieme non ci pensavano proprio. Si incontrano a San Diego nel 2009, in occasione del concerto del fratello di Madeline. Lei non ha ancora 21 anni e non potrebbe entrare. Brian la fa imbucare. Iniziano a frequentarsi, si piacciono, e decidono di tornare insieme a New York, dove entrambi avevano già iniziato l’Università.
Arrivano a Manhattan. Brian mette insieme i frammenti di alcuni brani, Madeline ci canta su, quasi per gioco. Dopo una settimana pubblicano il primo pezzo su internet. Passano due settimane e ricevono le prime proposte di esibizioni live. E’ l’inizio del 2010. Esattamente un anno dopo firmano un contratto con la Columbia Records e pubblicano l’album di esordio, che si chiama come loro, Cults. Come a voler ribadire che, si, sono giovanissimi, ma non scherzano. E in effetti Cults trasforma Brian Oblivion e Madeline Follin in due star dell’universo indie. Testi un po’ tristemente spensierati e melodie pop retrò e solari. Declinano il loro giovane amore in undici pezzi che fanno il giro del mondo. Go Outisde finisce anche negli spot pubblicitari.
Static è un progetto molto più ambizioso. E d’altra parte quando esordisci con la Columbia Records e fai il botto, convincendo pubblico e critica, poi devi inventarti qualcosa di altrettanto credibile. Perché nessuno ti perdonerebbe un passo falso. La scrittura di Static dura oltre un anno e mezzo. E ruota quasi interamente intorno all’evento che ha maggiormente segnato le dinamiche interne al giovane duo newyorkese. Brian e Madeline si sono lasciati. Poco dopo il loro debutto nel mondo discografico. Con l’aiuto di Shane Stoneback, il produttore che ha contribuito all’ascesa dei Vampire Weekend, e di Ben Allen, l’ex produttore dei Gnarls Barkley, i Cults giocano in difesa, e confezionano un album stilisticamente impeccabile, che però è meno coraggioso del precedente. Pop anni ‘60 condito con le più recenti tecniche di produzione. Un suono più calmo e rilassato di quello degli esordi. Una grande attenzione ai particolari. Un lavoro certosino sulla parte vocale, facilitato dal fatto che Madeline, oggettivamente, ha una bella voce. Atmosfere sognanti. Un tuffo indietro nel passato. Un gioiellino indie-pop.
Il brano più interessante, I Can Hardly Make You Mine, apre l’album, o meglio viene subito dopo la brevissima I Know, che è semplicemente un attacco. E’ l’unica canzone rock. Brian regala un bel riff di chitarra e Madeline si spettina un po’. Nel ritornello “I don’t think I can wait / for you all the way / staring through the tears / like a lonely girl” la voce di Madeline vibra. In questo brano i Cults riescono a contestualizzare bene la loro attitudine retrò. La scelta di collocare all’inizio il pezzo più coinvolgente lascia però l’ascoltatore in attesa di qualcosa di simile per tutta la durata dell’album. Tutto ciò che segue è un ottimo prodotto indie-pop. Bello da ascoltare. Ma non c’è molto di nuovo.
I testi invece sono il vero limite di Static. Scritti bene, ma ripetitivi. Il leitmotiv è quello di due fidanzati che si sono lasciati, girano intorno all’argomento, e finiscono sempre per dirsi che si amano follemente. Always Forever inizia con una frase che non lascia spazio alle interpretazioni: “Io e te per sempre insieme”. In Were Before i due all’inizio si parlano. Prima Brian dice a Madeline di averla incontrata per caso, di sperare che lei fosse come era una volta, e le chiede di non abbandonare le cose che loro adorano. Madeline risponde che adora ciò che loro erano prima. In So Far Madeline chiede al suo “lui” come faccia a dormire la notte se le cose non vanno come dovrebbero andare e lei è lontana.
La domanda che risuona nella testa dell’ascoltatore una volta terminato Static è “perché mai Brian e Madeline si sono lasciati ?”. La risposta forse arriverà insieme al terzo album dei Cults.