“Io la morte la conosco e se non mi ha battuto ancora
è perché io, da una vita, vivo solo per un’ora
D’aria
Aria”
(Daniele Silvestri, Aria. 1999)
Daniele Silvestri ha raccontato la cattività e la privazione della libertà più di una volta, descrivendo realtà diverse. Quella interiore di “ArgentoVivo“, dolorosissimo racconto di formazione negata, quella politico-sociale di “A Bocca Chiusa“, dove nella rappresentazione di un intero popolo, prevale il conformismo e la quiescenza. “Aria” atterrò sul Festival di Sanremo del 1999 come meteora aliena, unico brano a scompaginare la norma insieme a “Senza Giacca e Cravatta” di Nino D’Angelo, per motivi e occorrenze diverse.
“Ci sono vite che scorrono accanto alla nostra – raccontava Silvestri nella nota stampa che accompagnava la sua partecipazione sanremese – ma dalla nostra sono distanti anni luce. Vite che si consumano nel silenzio, dietro muri che noi abbiamo alzato per proteggerci dalle nostre paure, dai nostri sensi di colpa. A quelle vite è dedicata questa storia, per non dimenticare. Per restituire almeno un po’ di quell’aria che gli abbiamo tolto”
La soggettiva di un “non-morto” recluso nel carcere dell’Asinara è il punto di vista assunto dal cantautore romano, riflessione sul “fine-pena mai” fatta di eufonie trasversali, che dall’incubo di una reclusione immaginata elaborano una poesia combinatoria intorno alla parola “Aria”.
Questa sovrapposizione tra la morte apparente e la condizione del carcerato, l’ora d’Aria e il soffocamento, viene tradotta nel video diretto da Ago Panini con il contrasto tra la durezza materica del cemento e la realtà sospesa di una processione funebre, dalle caratteristiche quasi Kafkiane. Silvestri canta dentro una bara, il suo spirito si confonde con l’Aria in tempesta che getterà scompiglio tra officianti e istituzioni: un pubblico di borghesi fermi al primo novecento delle colonie penali, ritratti con i colori lividi della dagherrotipia; già morti.
Il soffio vitale persiste in quel vento. Si esce morti dal carcere?
Ascoltare in questi giorni “Aria” e riguardarne il video, aiuta a comprendere l’idea di regime contro cui si manifestava la poesia e il racconto sonoro di Silvestri, fuori dal solipsismo ombelicale che ha fatto marcire il nostro cantautorato nell’inferno della coazione a ripetere.
Più dell’inno di Mameli usato in questi giorni come anestetico per raccontare un’Italia che non è mai esistita, “Aria” è il racconto doloroso e ancora flagrante della condizione in cui versa la popolazione ristretta nei giorni dell’emergenza epidemiologica che tutti stiamo vivendo, inclusi i carcerati, affidati evidentemente ad una vera e propria discarica sociale.
I versi di Silvestri risuonano con le parole di Don Vincenzo Russo, cappellano del carcere di Sollicciano a Firenze, che a Valentina Sella de “Il Dubbio” ha raccontato chi sono veramente le persone che affollano le celle in condizioni disumane: persone povere, fragili, destinate ad un inferno ancora più tragico proprio in questi giorni.
Risuonano con le parole, chiarissime e umanissime, del detenuto che ha potuto scrivere una lettera aperta al ministro Bonafede attraverso il canale di Ristretti Orizzonti e che incorporiamo qui sotto.
Risuonano con l’esperienza di Antonio Gramsci nella prigione di Turi, abbandonato dalla negligenza dei medici carcerari, mentre paragona la sua condizione a quella di un torturato. Un’indifferenza perpetrata con la pervasività di una “raffinata tortura”, scriverà tra la stanchezza e una mai sopita volontà di lotta: “Certo, la prova migliore del fatto che si è stati veramente ammalati è quella di morire: ciò soddisfa tutte le esigenze scientifiche e amministrative. Ma non mi pare da accettare senz’altro a occhi chiusi”