Quando la Warner pubblicò l’album che chiudeva definitivamente l’esperienza Talking Heads, fu un piccolo shock positivo; la band di Byrne/Harrison/Weymouth /Frantz prima di Naked sembrava ormai essersi dedicata ad una revisione personalissima del pop statunitense, lasciandosi dietro quel sound concepito e condiviso con Brian Eno tra minimalismo elettronico, poliritmie africane, sciamanesimo e nevrosi urbana occidentale; se Speaking in Tongues era la versione già digerita e semplificata della breve stagione precedente, True Stories raggiungeva momenti quasi FM, tanto era assorbito dallo storytelling di Byrne funzionale alla struttura episodica dell’omonimo film da lui diretto.
Naked, in modo del tutto diverso e più “crudo”, acchiappava nuovamente il groove di Remain in light, riducendo l’elettronica ad un paio di episodi ed esprimendo in forma meno contaminata e più diretta l’amore per Fela Kuti con l’impiego di un’imponente sezione fiati; la prima metà dell’album sintetizzava tutta la storia originaria dei Talking Heads in versione più “acustica” anticipando allo stesso tempo le derive “world” del Byrne solista, dall’africa di Blind, all’Hawaiian sound di Totally Nude fino a quel mix tra Broadway e ritmi latini che è la magnifica Mr Jones, brano perfetto per la performance di un crooner sghembo.
Dopo essersi incontrati per una performance live, David Byrne e Annie Clark danno inizio alla lunga gestazione di Love This Giant, portando avanti un tipo di scrittura che nelle intenzioni avrebbe dovuto svilupparsi intorno ad una line-up arricchita da una consistente sezione fiati, la stessa che sul palco da vita ai brani di un album concepito sostanzialmente per la trasformazione live.
Un piccolo ritorno al futuro nella storia di Byrne che dal vivo recupera la forma essenziale e “nuda” del groove ri-arrangiando, letteralmente, anche i brani di St. Vincent; sfido chiunque abbia ascoltato con attenzione la bellissima versione di Marrow eseguita ieri sera in un Teatro Verdi al completo a non aver riconosciuto il tocco dell’ex Talking Heads nel concepire una regia invisibile e discreta come la sua posizione sulla scena, ma assolutamente padrona dell’intera serata.
Quell’insieme di trombe, sax, corno francese e Sousafono ha consentito la fusione di due esperienze in un gioco sincretico, tanto che il riconoscimento di paternità dei brani era probabilmente determinato solamente dalla forza incancellabile della memoria collettiva; impossibile non afferrare gli spettatori per i capelli con brani a “presa rapida” come Road to Nowhere, Wild Wild Life, Burning Down The house, paradossalmente tutti precedenti all’album dei Talking Heads che si sarebbe avvicinato maggiormente alle scelte sonore di Love this giant.
E se la versione di Northern Lights, con quella lotta tra i due, condotta a colpi di un esilarante Kung Fu, utile per alterare le isofrequenze di un Theremin collocato al centro, ci ha fatto pensare, in forma più ludica, al modo in cui Byrne ha utilizzato il suo corpo lungo tutta la sua carriera, ovvero come territorio di confine tra organico e inorganico esattamente come i corpi-strumento di Laurie Anderson e Peter Gabriel (chi si ricorda This is The Picture nell’esperimento satellitare di Nam June Paik?), Annie Clark se non “actor out of work“, ci è sembrata parte di un concept che riassumeva in fondo la storia migliore di Byrne, da cui, che lo si voglia o no, proviene anche il suo modo di comporre.
La conclusione del concerto, quando Byrne e la Clark sono già scomparsi insieme alla line-up di base, è affidata ai fiati in versione “marching band” che si confondono tra gli spettatori della platea, sembra davvero un frammento di True Stories, quando la St. Thomas Aquinas Elementary School emerge dal deserto per poi scomparire subito dopo, in un’esecuzione bandistica di “Hey Now“.
Aveva ragione Annie Clark nel ringraziare Byrne, anche da parte di tutti i presenti, per esser stato la colonna sonora delle nostre vite.