(la foto di copertina è di Paolo Zapparoli)
Tra il Frank Zappa di “Tengo na’ minchia tanta” e i Dilatazione ci sono alcune affinità elettive. L’ironia come gioco assai serio è una di queste. Il 14 luglio del 1982 Zappa si trovava allo stadio della Favorita a Palermo a conclusione del suo tour italiano.
La seconda data della trasferta si era svolta qualche giorno prima, l’8 luglio, presso lo stadio comunale di Pistoia, non così distante dalla sede Trydog, lo studio dove Alessio Pepi ha mixato The Third, The Last, My Everything, l’ultimo album della band toscana registrato su nastro e in presa diretta, la cui pubblicazione su vinile è stata resa possibile da una campagna di successo su MusicRaiser.
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Mentre Federico Meoni era nato un anno prima dell’esperienza Zappiana a Pistoia, Alessio Pepi due, Patrizio Gioffredi tre, Mirko Bertolucci quattro, Alessio Ciborio Gioffredi vedeva la luce nel dicembre dello stesso anno. Le energie sono quantificabili scientificamente solo fino ad un certo punto, ma ci piace pensare che parte di quella rigorosa follia che attraversò la penisola durante l’estate dell’82 sia stata trasmessa ai cinque Dilatazione prima e dopo l’evento sotto varie forme, non ultima quella genetica.
Zappa scrive il brano sulle dimensioni del membro proprio durante il soggiorno siciliano dopo aver acquisito senso e utilizzo di una parola molto frequente nella terra dove erano nati i suoi avi. Prima ancora del significato e della burla, per il musicista di Baltimora è importante il suono e la musicalità della parola parlata. La canzone, cantata da Massimo Bassoli, viene inserita tra il materiale aggiuntivo di “Uncle Meat”, l’album del 1969 ri-pubblicato in CD 26 anni dopo e prima ancora nell’omonimo film diretto dallo stesso Zappa nel 1987.
“La Minchia”, ascoltata oggi con la memoria all’inquietante gestione della data Palermitana, interrotta dopo 30 minuti per le cariche della polizia contro gli spettatori che avanzavano verso il palco, desiderosi di godersi decentemente il concerto, è una dissacrante boutade dall’incedere ossessivo e scuro, oppure da una prospettiva diametralmente opposta, un mantra erotico dall’andamento spiraliforme, dove il gioco non può essere disgiunto dal sesso.
I colori, lo spirito, l’accoglienza della Sicilia e come forza oscura contraria, l’orrore e la violenza che culminano con la Strage della Circonvallazione, sembrano concentrarsi, consciamente e inconsciamente, nella formidabile sintesi Zappiana. Un gioco serissimo, come dicevamo all’inizio.
Dilatazione – A Russian Passport for Steven Seagal
Il nuovo album dei Dilatazione vive entro polarità opposte della stessa qualità. Rigoroso e “tecnico” come il rock strumentale degli anni novanta, gioca letteralmente con i generi (Jazz, Elettronica, Musica per il cinema, house e trance music teutonica, ma anche porno groove) scombinandone i piani di lettura e consegnandoci un oggetto inafferrabile, non per questo ostico.
Per il sottoscritto è un disco con un tiro coinvolgente e allo stesso tempo cupissimo, che comunica tensione e forza come la migliore musica strumentale è capace di fare, oppure gioia e dolore, come il sesso nei momenti apicali, ma ha ragione Mirko Bertolucci che l’ha scritto, nel rivendicare il gusto per il gioco inteso come traduzione fisica della scrittura, aspetto che trova evidentemente compimento nella dimensione live della band pratese, a cui questo disco, grazie anche all’attenta produzione di Alessio Pepi, si avvicina in modo più preciso rispetto ai precedenti realizzati.
I Dilatazione, che possono vantare un curriculum di tutto rispetto, considerata la loro militanza nei progetti di Ulan Bator, La Band Del Brasiliano, il collettivo John Snellinberg, Blue Willa, Muriel, SoloInCasa, aggiungono un elemento in più alla rilettura di certo rock strumentale che nel nostro paese è passato attraverso le esperienze di Giardini di Mirò, Aucan, Appaloosa, Ronin.
L’approccio è combinatorio e consente loro di uscire dal recinto del “post-rock” scolastico per trovare coesione e coerenza nella continua contaminazione di suoni, influenze, parametri e attitudini, non ultima la relazione tra suono live e registrazione, che in questo album è frutto di un certosino lavoro di sottrazione.
Ne abbiamo parlato con gli stessi Dilatazione quasi al completo, per avvicinarci all’universo sonoro di un gruppo di musicisti tra i più preparati e intelligenti del nostro paese.
Avete lavorato in studio con Andrea Cajelli, purtroppo scomparso recentemente. Come si è svolto il lavoro con lui?
Mirko Bertolucci: Abbiamo concentrato la fase di registrazione in pochi giorni, e da parte sua c’è stata tutta la disponibilità e la capacità di leggere le dinamiche del gruppo in quel poco tempo che avevamo a disposizione. E’ sempre particolare il rapporto che si crea tra un gruppo ed il tecnico in studio, è una “convivenza” in cui nascono sentimenti contrastanti, ma con Andrea è stato tutto semplice.
Alessio Gioffredi: Ho avuto la fortuna di lavorare con Andrea anche in occasione delle registrazioni di “Tohu-Bohu” con gli Ulan Bator. Era un ragazzo molto tranquillo che amava profondamente il suo lavoro. Con i Dilatazione abbiamo avuto un approccio molto particolare per le registrazioni, i brani non erano del tutto completi e puntavamo a registrare più materiale possibile per poi rielaborarlo in post-produzione. Inizialmente Andrea era un po’ spiazzato, poi ci ha aiutato con i suoi preziosi consigli. Se questo disco suona quindi molto “live” buona parte del merito va a lui e all’ottima padronanza che aveva nel gestire il suo studio, il suo gioiello.
Facciamo un passo indietro. I Dilatazione esistono ormai da diversi anni e soprattutto intrecciano progetti di diversa natura e provenienza. Ulan Bator, La Band del Brasiliano, Muriel. Mi sembra che in questo lavoro, rispetto al precedente “The importance of Maracas in the Modern Age”, ci sia maggiore contaminazione e permeabilità, anche in relazione alle vostre diverse esperienze. È così?
Patrizio Gioffredi: Sì, le esperienze hanno pesato soprattutto in campo espressivo. Abbiamo affrontato questo disco con maggior consapevolezza dei mezzi. Le contaminazioni c’erano già in “The Importance of Maracas in the Modern Age” – che personalmente amo molto – ma in una forma più naif e lo-fi.
Alessio Gioffredi: Io ho messo su un paio di progetti che hanno a che fare con l’elettronica (Goldstreet, Cyb), una sfera che sta prendendo sempre più campo anche nella nostra musica. I progetti che abbiamo intrapreso parallelamente hanno sicuramente giovato per maturare come musicisti e acquisire maggiori esperienze. [pullquote]Non pensiamo mai a quello che il pubblico o la critica del momento vorrebbe ascoltare[/pullquote] Resta il fatto che i Dilatazione hanno avuto un approccio compositivo sempre molto atipico, non pensiamo mai a quello che il pubblico o la critica del momento vorrebbe ascoltare. Questo può spesso essere controproducente sotto certi aspetti ma al tempo stesso è dimostrazione che siamo sempre stati estremamente coerenti nel voler offrire una proposta musicale originale.
Alessio Pepi: In realtà questo disco, forse per il fatto che la produzione artistica è stata curata direttamente da noi, risulta meno eterogeneo come stile rispetto a “The Importance of Maracas in the Modern Age”, questo perché ci sono dei limiti stilistici che ci siamo autoimposti e che riusciamo a superare solo se un produttore esterno ci guida in altre direzioni.
Tra hardcore, jazz, elettronica e musica per il cinema. È una sintesi imprecisa, ma potrebbe definire alcune caratteristiche del vostro territorio sonoro. Cosa aggiungereste per una fotografia più specifica?
Patrizio Gioffredi: In termini cinematografici per il primo disco pensavamo alla Nouvelle Vague, per il secondo ai b-movie fantascientifici anni 60-70, per questo assolutamente a John Carpenter.
Alessio Gioffredi: Citerei Zappa, non tanto in termini strettamente musicali, quanto per il suo essere costantemente fuori dagli schemi, profondamente auto-ironico e senza preconcetti quando si tratta di comporre.
C’è una stagione precisa per la musica strumentale che cercava di conciliare aspetti apparentemente inconciliabili ed è quella chicagoana degli anni novanta. Quanto vi sentite legati a quel periodo e in che modo ve ne allontanate?
Patrizio Gioffredi: Abbiamo ascolti molto diversi e l’amore per i Tortoise e la scena chicagoana degli anni 90 è forse l’unica cosa che accomuna tutti i membri del gruppo.[pullquote]Quell’impossibilità di prendersi sul serio che è tipica dei toscani[/pullquote] Forse perché in fondo quel tipo di “post rock”, quello “semanticamente corretto” diciamo, contiene in sé un po’ tutta la musica possibile. Ce ne allontaniamo sicuramente per l’ironia, quell’impossibilità di prendersi sul serio che è tipica dei toscani.
Alessio Gioffredi: Poche volte alzo la testa al cielo per ringraziare “non so chi” di qualcosa. Lo faccio puntualmente ogni volta che mi trovo ad un concerto dei Tortoise.
Il nuovo album si avvale della produzione di Alessio Pepi, bassista e fonico della band. Come si è svolto il suo lavoro sui suoni nel passaggio da scrittura a produzione sonora? Pur mantenendo altissimo l’impatto della sezione ritmica, mi pare che il suono sia più aperto, arioso, ampio. Erano queste le intenzioni?
Alessio Pepi: Il processo di produzione si compone di scelte ognuna delle quali svolge un ruolo nel risultato finale. La scelta dello studio dove registrare ha un’importanza notevole perché è li che si imposta il suono di partenza. La Sauna Recording Studio ci ha dato la possibilità di registrare attraverso un banco storico, l’MCI JH 600, e soprattutto di registrare tutti i brani su nastro e in presa diretta. [pullquote]L’album è registrato su nastro e in presa diretta. Quello che sentite su disco è il suono della batteria e degli strumenti così come li abbiamo registrati [/pullquote] L’acustica della sala di ripresa dove era collocata la batteria era fantastica e per le chitarre e il basso abbiamo utilizzato molti amplificatori in contemporanea così da non limitarci nelle scelte successive. Quello che sentite su disco è il suono della batteria e degli strumenti così come li abbiamo registrati, ci sono pochissimi aggiustamenti fatti in fase di mix: doveva essere una fotografia di come suonavamo insieme in quel preciso momento.
Nonostante l’ironia apparente di alcuni titoli, mi sembra che “The Third, the last, My Everything” sia un album molto oscuro e cupo, un po’ come fosse l’urlo di un inseguito. In questa caccia tragica, gli stessi titoli sembrano alludere al panorama attuale, con i confini nazionali che tornano a separare la vita delle persone. È così?
Patrizio Gioffredi: Io sono d’accordo con te. Lo sento come un disco molto cupo, più dei precedenti. Per quello citavo Carpenter. Ma Mirko, che tra l’altro ha scritto gran parte dei brani, la pensa diversamente.
Mirko Bertolucci: E’ giusto che ognuno abbia le proprie letture dei brani; ritengo che alcune tracce siano meno “scazzone” (passatemi il gergo tecnico) di alcune presenti in “The Importance Of…”, ma questo non mi porta necessariamente a leggere “The Third, the last, my everything” come un disco cupo. Nel complesso lo percepisco come un disco più “fisico” dei precedenti, con una libertà creativa meno “scanzonata” del precedente ma non “oscura”. Sicuramente il contesto in cui viviamo influisce su quello che pensiamo e su ciò che siamo in grado di trasmettere. [pullquote]Riunire tutti coloro che odiano la frutta e i mandarini in particolare sotto un palco[/pullquote] Sono altrettanto convinto che ogni lavoro dei Dilatazione, abbia avuto nella sua attitudine un valore politico/sociale, ma mi sembra improprio attribuire una lettura politica/sociale attuale a canzoni scritte intorno al 2011/2012. Tutto qui. E poi… io non sono fisicamente in grado di rispondere a domande serie, il mio scopo al momento della scrittura di questi brani era solo quello di riunire tutti coloro che odiano la frutta e i mandarini in particolare sotto un palco e condividere con loro la necessità di una riforma istituzionale del paese, perché non ci devono essere confini nazionali per le persone, ma per i mandarini si. Lo riterrei corretto. E so che qualcuno al mondo, la pensa come me.
Alessio Pepi: In quasi tutti i brani è presente un tappeto sonoro composto da archi molto bassi di volume, quasi nascosti, che spostano l’armonia verso territori più cupi: questo aspetto è nel nostro dna, forse non emerge in maniera netta in tutti i nostri lavori in studio, ma era comunque presente in sottofondo.
Dilatazione – “The Third, The Last, My Everything” – Promo 2
E la copertina dell’album, tratta da una collezione di ritratti animali realizzati da RobMacInnis rientra in questa ipotesi?
Patrizio Gioffredi: Ci siamo innamorati di quella foto, ironica e inquietante allo stesso tempo, e ci sembrava fotografasse perfettamente non solo il contenuto del disco ma anche il nostro modo di essere, come band. Certo l’effetto di straniamento che provoca credo sia universale e si accompagna bene alle vicende dell’umanità in questo periodo storico.
Questo è il primo album dei Dilatazione dove si affaccia la voce. È una voce spesso processata, disumanizzata o comunque resa irriconoscibile. Come mai questa scelta?
Mirko Bertolucci: In realtà anche nei precedenti lavori la voce era presente (Amaury Cambuzat, Alberto Mariotti…) sicuramente in questa produzione è stata molto più processata rispetto quanto fatto in passato. Credo che questa scelta sia nata dal fronte live, dove spesso utilizziamo il vocoder per eseguire alcuni brani. Di lì una fisiologica necessità nel trovare equilibrio sonoro che fosse confortevole anche con una riproduzione live dei brani, oltre che una inevitabile sommatoria di trip mentali che si creano durante la produzione in studio.
Alessio Pepi: La voce in questo lavoro, come in tutti gli altri [pullquote]La voce viene usata come strumento musicale e trattata come tale[/pullquote] dischi dei Dilatazione, perde i connotati che assume in altri generi e quindi viene usata come uno strumento musicale e trattata come tale.
Avete scelto la via dell’autoproduzione, dopo esser usciti per un’etichetta come Acid Cobra. I motivi sono contingenti oppure legati ad un’esigenza di maggior controllo su tutta la filiera di produzione di un disco?
Patrizio Gioffredi: Il disco è stato fermo per troppo tempo. Quando abbiamo deciso di tirarlo fuori dal cassetto non volevamo perdere mesi nella ricerca dell’etichetta giusta. Ci andava semplicemente di farlo ascoltare. L’unica cosa che volevamo a tutti i costi era il vinile. E’ il nostro disco che suona meglio, crediamo che meriti quel formato.
State promuovendo l’album dal vivo. Cosa cambia su palco rispetto ai brani su disco, sia in termini di collaborazioni e integrazioni, sia per quanto riguarda i risultati e gli obiettivi sonori
Patrizio Gioffredi: Non suonavamo insieme dal 2013 e siamo rimasti sorpresi dagli ultimi live, in termini positivi. C’è più groove rispetto al passato. “The Third, the Last, my Everything” suonava già molto “live” per le modalità in cui è stato registrato. Dal vivo cerchiamo di metterci ancora più energia.
Mirko Bertolucci: Cambia che dopo due live, con i limiti di 4 anni di inattività live, l’energia accumulata nel frattempo abbia diritto di essere rilasciata…Perciò Rage Against Mandarino a tutti voi!