Chitarrista, vocalist e cantautrice, la torontoniana Dorothea Paas è tra le artiste più amate e conosciute in quella parte del Canada, nonostante la sua produzione si sia limitata ad una serie di demo e di cassette autoprodotte fino al 2021, anno del suo debutto ufficiale per la Telephone Explosion Records.
Dorothea Paas, improvvisare verso la luce
Attiva sin dal 2011 ha suonato con numerosi musicisti e formazioni locali, tra cui U.S. Girls, Jennifer Castle e il progetto noto come Badge Époque Ensemble, guidato da Max Turnbull che ha mixato l’album della Paas. Alcuni di questi artisti sono confluiti nello sviluppo e nella registrazione di “Anything Can’t Happen“, contribuendo a delineare il sound di una band a tutti gli effetti, costituita da Paul Saulnier (PS I Love You), Liam Cole (Little Kid), Robin Dann (Bernice), Thom Gill (Bernice e The Titillators), ovvero parte della scena dell’Ontario degli ultimi tre lustri.
La scrittura del disco appare quindi già matura e definita, consegnandoci una raccolta di canzoni che pur debitrici di una terra di mezzo tra folk e jazz sperimentata a lungo da Joni Mitchell, rilanciano quelle intuizioni attraverso la lente del folk-rock tra gli anni novanta e il nuovo millennio, espandendone i presupposti e sporcando l’ordito con il rumore, la dilatazione sensoriale, l’improvvisazione. In termini attitudinali, c’è molto degli episodi più visionari della Buffy Sainte-Marie di Illuminations, senza quella furia rituale e con una maggiore introspezione “laica”, che la avvicina ad autrici contemporanee come Tara Jane O’neil ed Edith Frost. Rispetto a queste a fare una rilevante differenza è l’utilizzo della voce, potente, duttile e nient’affatto eterea, tanto da riuscir a interpretare la tempesta affettiva delle liriche senza abbandonarsi alla retorica del dolore, ma al contrario puntando decisa verso la luce in termini armonici e narrativi.
“Anything Can’t Happen” è infatti un racconto sentimentale alla ricerca del sé, oltre la claustrofobia della dinamica amorosa, che risuona anche nell’apertura strutturale delle canzoni stesse, mai sottoposte ad uno sviluppo tradizionale, ma continuamente aperte alla trasformazione. Eppure, questa scelta che in altri casi porterebbe con se una definizione jazzistica marcata, viene condotta con grande sensibilità e intelligenza, tenendosi alla larga da sonorità riconoscibili in tal senso e costruendo un jazzin’ dell’anima con altri mezzi strumentali e strutturali, come accadeva negli ultimi due album dei Talk Talk, ma anche nei brani più liberi dei Sonic Youth. Dorothea, in alcune interviste, spiega questa dimensione in termini emotivi, raccontando una tensione verso l’ignoto sottesa dal sentimento della fine. Questo può contenere paura, ma anche apertura verso la speranza.
Anything Can’t Happen, i video di Ryan Al-Hage per Dorothea Paas
Per un album straordinario, la cui stratificazione risiede anche nel suo esatto opposto, l’immediatezza, Dorothea Paas ha diffuso due video molto semplici, concepiti sulla forma soggettiva dell’autoritratto ed entrambi diretti dal fotografo Ryan Al-Hage. Per la title track vengono scelte le cascate del Niagara come location principale, con un metodo che il regista stesso indirizza al cinema di Wong Kar-wai, nella strategia di cogliere un dettaglio soggettivo, per rendere l’esperienza di una flanerie nel suo farsi. Un metodo che si allinea al flusso interiore dell’artista canadese e che in qualche modo ne segue l’estetica improvvisativa.
Container, il brano, viene raccontato dalla stessa Paas come un continuo tentativo di ri-centrare il flusso di coscienza intorno al concetto di casa. Da una parte l’improvvisazione, dall’altra la risoluzione nell’accordo in do, così da creare oscillazione tra il radicamento e la deriva. Il video diretto da Ryan Al-Hage è girato in un parco, con Dorothea a bordo di una giostra e il punto di vista fissato sull’asse. Un autoritratto simile al precedente, dove il movimento meccanico smuove lo sguardo radicato.