Un tempo Bill Callahan fu cantore di quel cosiddetto alt-country limitrofo, ma solo d’un soffio, al post-rock di metà ’90 ma via via la sua grammatica, al pari di quella del Will Oldham con cui ha condiviso intenti prima ancora di aver incrociato percorsi in più di un’occasione, s’è rimessa al servizio di una ricercata classicità che passando dalla tradizione, è approdata, oggi, ad un suono più corposo, anche più accessibile, quasi easy listening nell’accezione più nobile che il termine porta con sé.
Se già in Apocalypse certe derive jazz-folk affioravano, alleggerendone le lugubri mosse infatti, qui le stesse divengono scheletro vero e proprio e tracciano le coordinate di una grammatica, in fondo, non del tutto esplorata fin’ora dal cantautore americano.
Così fin dall’iniziale The Sing, in cui il nostro si produce in una deliziosa pantomima d’autismo da bar (Le uniche parole che ho detto oggi sono state birra e grazie/ birra… grazie… birra… grazie), s’è calati in un universo sonoro passato, prettamente, orgogliosamente, retrò. Pienamente settantesco.
Cosicchè l’andamento galoppante di Javilin Unlanding assume dinamiche quasi del tutto prog, in virtù dell’insistere lieve del flauto che poggia, striandola di umori bossanova, anche su Summer Painter. Mentre il florilegio di percussioni che puntella il disco quasi nella sua interezza e le soffuse elettriche west coast, rimandano alla mente addirittura il Santana dei tempi belli (Summer Painter). Con Dream River, il tenente Callahan, riporta il Cohen di I’m Your Man al Nick Drake di Bryter Layter, a conferma di una maturità che lo ascrive tra i migliori cantori d’America di sempre. Pur a dispetto di un album che, forse, regala poco in termini di sorpresa ma che rimane l’opera di un artista unico.